–di Tommaso Tronconi-
A 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, lo sguardo del cinema americano torna a posarsi sul conflitto che ha cambiato il corso della Storia. Lo fa con Fury, asciutto e imponente war movie diretto da David Ayer. Tra i protagonisti Brad Pitt, Shia LaBoeuf, Logan Lerman e Michael Peña.
Aprile 1945: la Germania nazista è al collasso. Di lì a breve, il 30 aprile, mentre i Sovietici entrano per primi a Berlino, Hitler si suicida insieme ad Eva Braun. Il 7 maggio la Germania firma la resa senza condizioni: la Seconda Guerra Mondiale in Europa è finita. È sullo sfondo dei capitoli conclusivi del secondo conflitto mondiale che si staglia Fury, il tuonante war movie diretto David Ayer con protagonista un cast d’eccezione in cui spiccano Shia LaBoeuf e Brad Pitt.
Pitt è il sergente dell’esercito americano Don Collier, da tutti soprannominato “Wardaddy”, chiamato a guidare un’unità di cinque soldati in una missione mortale dietro le linee nemiche tedesche a bordo di un carro armato Sherman dal nome (di battaglia) Fury.
A 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, Fury di David Ayer è un nuovo grande tassello cinematografico incentrato sul conflitto che ha cambiato per sempre la Storia. Costato 80 milioni di dollari (ampiamente ripresi incassando in tutto il mondo oltre 240 milioni di dollari), Fury ci offre un sentito spaccato dell’assurdità e dell’atrocità della guerra. David Ayer mette insieme un manipolo d’attori di prim’ordine e lo spoglia, su tutti Brad Pitt, da ogni parvenza divistica. Fury non è un film patriottico, né americanocentrico, né tantomeno interessato a glorificare le gesta eroiche dell’esercito statunitense. Dietro la portata e l’investimento economico di un kolossal, c’è un film asciutto, sporco, fangoso, che mette alla berlina la guerra, ogni guerra.
Fury è quindi un film che sa arrivare con egual intensità e profondità a tutti gli spettatori, americani come europei come asiatici. Non c’è trionfalismo bensì pietas, non c’è melodrammaticità bensì la resa più cruda e crudele della ferocia della guerra. Ayer, infatti, non rinuncia a mostrarci la “morte in diretta”: vediamo saltare gambe e cervella, “vittime” e bersagli di una folle furia bellica capace solo di seminare morti, uno dopo l’altro. Una furia che colpisce e abbrutisce la mente dei soldati, di chi, schiavo (in)consapevole, fa e allo stesso tempo subisce un guerra che non ha voluto. Una furia solo parzialmente smorzata in un finale che ci consegna un flebile barlume di umanità, circondato però da tanta desolazione che è solitudine fisica e spirituale.
Fury è inoltre un’opera che sa guardare e far tesoro del grande cinema del passato. Bellissimo il lieve ma evidente omaggio all’episodio siciliano di Paisà di Rossellini, a quel dialogo tra il soldato Joe e la scontrosa Carmela al lume di un accendino funesto. Una scena che ritorna nell’amorosa conversazione tra la giovane leva Norman (Logan Lerman) e la bella ragazza tedesca che, per il tempo di un pranzo, “ospita” in casa i cinque militari americani. Ma Fury, svolgendosi per larga parte nella pancia di un carro armato, ricorda lo sconvolgente Lebanon di Samuel Maoz, film sulla prima guerra del Libano vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia 2009.
A sette decadi, quindi, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, Fury si inserisce a testa alta nel lungo e variegato filone dedicato dal cinema americano alla Second World War. Innumerevoli i film che hanno sposato il punto di vista dei Tedeschi o degli Alleati, dei Giapponesi o degli Americani. Semplicemente sterminata, dunque, la lista di film da ricordare. Fury, però, ci dà la possibilità di rammentarne almeno cinque tra quelli che hanno raccontato le imprese di un drappello di intrepidi oltre le linee nemiche naziste verso missioni leggendarie.
Tra i più recenti, pur coprendosi col mantello della fanta-storia più sfacciata e irriverente, Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino, dove Brad Pitt, nei panni del tenente Aldo Raine (di cui pare aver conservato il taglio di capelli in Fury), è alla guida di una squadra speciale di otto soldati ebrei incaricati di uccidere quanti più soldati tedeschi e di portarne a casa lo scalpo.
Lontano dai toni goliardici e pulp di Tarantino, ben più poetico e introspettivo è La sottile linea rossa (1998) di Terrence Malick, vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino 1999. Protagonista una compagnia di fucilieri statunitensi impegnati, nel 1942, nella conquista dell’isola di Guadalcanal.
Sempre del 1998 è Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Patriottico e ridondante, racconta l’impresa del capitano Miller (Tom Hanks) e della sua squadra di sette soldati: recuperare il paracadutista James Francis Ryan, quarto e ultimo figlio della famiglia Ryan, sopravvissuto alla guerra. Un film passato alla storia per quei lunghi, spettacolari e truci 24 minuti iniziali incentrati sullo sbarco in Normandia.
Risale invece al lontano 1967 Quella sporca dozzina di Robert Aldrich, in cui un gruppo di dodici galeotti viene addestrato e assoldato dall’esercito statunitense per assaltare un castello francese, covo e rifugio di ufficiali tedeschi. Un film da veri duri, un cult del cinema americano dei pieni anni Sessanta.
Infine, war movie assolutamente sui generis è Monuments Men (2014), film scritto, diretto, prodotto e interpretato da George Clooney, affiancato dall’amicone Matt Damon e da signor attori quali Bill Murray, John Goodman e Jean Dujardin. Nel film Clooney è un illustre studioso d’arte che, per volere del governo americano, riunisce un gruppetto di colleghi curatori di musei, architetti ed esperti d’arte per “infiltrarli” nell’esercito col fine di ritrovare quadri e sculture trafugate da Adolf Hitler nei paesi europei invasi.
Tommaso grazie per questo bellissimo articolo.