-di Tommaso Chimenti-
Fin quando era diretto da grandi registi che tenevano le redini e tiravano le briglie del suo talento, a tratti anarchico, Filippo Timi era un’icona del nuovo cinema italiano. Basti pensare a “In memoria di me” di Saverio Costanzo, a “Come Dio comanda” di Gabriele Salvatores, o a “Vincere” di Marco Bellocchio, solo per fare alcuni esempi, ai suoi primi piani intensi alla Javier Bardem, a quegli occhi spiritati che avevano dentro mondi nascosti e irrisolti, spazi e sprazzi di materia incandescente.
Poi il radicale cambio di prospettiva, la completa leggerezza colorata nel teatro, i vari “Favola” e “Il popolo non ha il pane? Diamogli le briosche”, “Don Giovanni” o “Casa di Bambola”, e la non memorabile serie televisiva “I delitti del Barlume” (su Sky, comunque alti ascolti) sul barista e l’allegra combriccola di anziani che sul litorale toscano risolvono omicidi tra un aperitivo e gag pseudocomiche. Sicuramente è più facile, certamente più rassicurante, per noi spettatori una grande perdita, commercialmente un successo. Nei suoi zibaldoni, grandi contenitori surreali, minestroni dove non c’è limite al nuovo ingrediente da tritare nel calderone indistinto, dove la drammaturgia non riesce a (con)tenerlo, a limitarne la vena eccessiva istrionica, e dove il filo narrativo può essere interrotto all’infinito (il suo pubblico vuol vedere l’animale da palcoscenico che si esibisce nei suoi numeri, nelle sue gag), i nessi logici possono essere sostituiti dall’estemporaneità, dall’improvvisazione, dalla voglia, dal desiderio pop ad ogni costo, da quell’intenzione di fondo di piacere, di autocompiacimento, dell’applauso, dell’acclamazione da plebiscito. Timi ama se stesso e il suo pubblico ama Timi. Non puoi non volergli bene con le sue contraddizioni, le sue debolezze esposte, messe in piazza, esorcizzate nei suoi libri, la vista carente, la balbuzie.
Ha scelto questa architettura di specchi che rimandano la sua immagine (sempre prodotto dal Teatro Franco Parenti milanese di Andrée Ruth Shammah), soverchiato da estetismi da opera, cromature da musical, svolazzi di maniera, frizzi, pizzi e lazzi. Diventa tutto leggero, frivolo, fragile, un varietà da non prendere troppo sul serio, un gioco teatrale che si infrange, si sbriciola, e si sfarina con gli applausi finali, da standing ovation, da kolossal, da evento, da concerto rock. Lo spettacolo infatti cerca e si abbevera continuamente del rapporto con gli spettatori, ci sono rimandi e furbescherie lascive, ruffianerie, gesti e sguardi d’intesa, sempre dentro e fuori la scena, Timi che ora è personaggio, Timi che adesso è soltanto se stesso, il pubblico voyeurista che viene a vedere il nome famoso e non a sentirne la storia che ha da raccontare, che cerca l’icona e l’immagine non la profondità del racconto. Timi che fa Timi, questo cerca la folla, la claque che tutto gli perdona, che vuole l’eccesso. Nel foyer si parla dei costumi e mai della drammaturgia, delle canzoni ridanciane e mai del sottotesto. Si parla di Timi, di quando è entrato in mutande, delle canzoni inserite (spesso fuori luogo, che allontanano dall’essenza del precedentemente detto). Forse il pubblico di Timi fa male allo stesso Timi perché lo spinge sempre più verso questi lidi facili, verso questi approdi comodi.
Timi è artista a tutto tondo (questo è innegabile, è per questo che ci aspettiamo di più) ma dovrebbe scrollarsi di dosso questa voglia continua di piacere a tutti, di ricevere attenzioni e plausi incondizionati, di avere baciamani e una moltitudine indistinta in giubilo, in estasi al suo passaggio. Che la divinizzazione di Timi scemi per recuperare il grande attore adesso soverchiato dalla spettacolarizzazione, dal futile, dallo show bidimensionale, da tutto quell’ammasso di paillette e luccichini, di boa di struzzo vaporoso che durano il tempo di un tramonto, lo spazio di un sorriso. Il personaggio si è mangiato l’attore travolto da quella insistente ricerca sfrenata del varietà, quella bramosia esagerata di avanspettacolo.
Ed arriviamo a questo nuovo “Un cuore di vetro in inverno” (produzione Franco Parenti e Fondazione Teatro della Pergola), tra “Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams e “Un cuore in inverno”, dove rimette in gioco e in scena gli elementi peculiari delle sue opere: il rapporto con la madre e il femminile (qui è vestito da sposa), la relazione carente con il padre, questa ricerca ossessiva di amore, di affetto, di vicinanza umana, di calore. Altamente autobiografico, anche se declinato in cinque personaggi differenti, l’umbro, lo stesso Timi prima sposa e poi cavaliere donchisciottesco, una prostituta romagnola, e l’atmosfera si fa già felliniana e circense, uno scudiero napoletano, un angelo svampito alla Marilyn, un menestrello triste. L’aria che si respira è da commedia superficiale anche se i temi sono importanti, la scrittura corposa e poetica, il tentativo della traduzione in perugino pungente (idea già attuata con un suo spettacolo di qualche anno fa “Giuliett’e Romeo. M’engolfi ‘l core, amore”), la letteratura che sciorina ampia, colta, importante. Ma si ha sempre la netta sensazione che il primo a non crederci fino in fondo, a non prendersi troppo sul serio (le responsabilità aumenterebbero) sia proprio lo stesso autore perugino, come se dopo aver lanciato una frase struggente nel buio, “Ogni campana è un guaito di tristezza”, sia subito disposto a rimangiarsela, a distruggerla, a corromperla con un escamotage rindanciano e facile, con una barzelletta spiccia, con quel suo interagire con la platea come fossimo ad un stand-up comedy, sempre picconando e sfondando la quarta parete. Si alimenta nel suo essere gigionesco ma è un circolo vizioso. Il pop a tutti i costi diventa paradossale, fa il giro su se stesso, diventa sberleffo da guitto, s’inerpica sulla sua coda e si fa ridicolo, parodistico, ruba una risata a bocca larga e lascia un vuoto indecifrabile dentro.

Un cuore divetro in inverno
uno spettacolo di e con Filippo Timi
e con Marina Rocco, Elena Lietti, Andrea Soffiantini, Michele Capuano
luci Camilla Piccioni
produzione Teatro Franco Parenti / Fondazione Teatro della Toscana
Foto di Noemi Ardesi
Ecco, si ha sempre quel vago sentore (disturbante) diffuso di essere davanti a Timi e non ad un attore (molto bravo, peraltro) che interpreta Shakespeare o Ibsen. Il timore è quello della trovata iperbolica susseguente, dell’espediente astuto che tra poco scatenerà risate negli spettatori compiacenti e annuenti. Quando usciamo siamo avvolti e martellati dalla sua immagine che è ridondante ed eccessiva, debordante come un’ondata d’alta marea che tutto si porta a valle. Timi è un mattatore travolgente, è senza freni, non ha limiti. Il risultato è un magma confusionario dove il primo uomo sulla Luna (costumi e scene sempre di alta qualità) si miscela con Giuseppe e Maria la notte del parto di Gesù (con la madre del Cristo che vuole abortire tirandosi sassate sulla pancia), passando per Adamo ed Eva e l’ultima cena. Poi senti un “Davanti ho solo un cielo di palpebre gravido di mattoni” e ti si apre il cuore e ti dici finalmente e attendi la virata ma immediatamente dopo viene rimangiato dal suo smodato insistere sul fronte del one man show, quella dose irresistibile di pop riconoscibile e macchiettistico, partono a cappella Lucio Battisti e Gigi D’Alessio e Papaveri e Papere che si impastano con la morte del cavaliere che ha del caravaggesco come del pasoliniano (pare proprio la descrizione del massacro del Lido di Ostia del 2 novembre 1975) , fino al battimano sulle note di “Billie Jean” di Michael Jackson nel finale dove tutti i cinque personaggi sono addobbati da sposa velata con tanto di guanto brillantinoso e moonwalk. I conti al botteghino danno ragione a Filippo Timi (non si vive di solo pane) ma ancora non abbiamo capito se è l’autore di Ponte San Giovanni ad usare il pubblico o se è la platea che usa Timi per il suo desiderio di bolle di sapone. “Tutti stanno cercando qualcosa. Alcuni di loro vogliono usarti Alcuni di loro vogliono essere usati da te Alcuni di loro vogliono abusare di te Alcuni di loro vogliono essere abusati”, cantava Annie Lennox mentre veleggiava sui suoi sette mari. Sotto lo sterno rimane un amaro senso d’incompiuto, d’occasione persa, di mancato appagamento, di sospensione.
Foto di copertina di Noemi Ardesi