Fibonacci, ovvero comprare con la matematica

Data: gennaio 16, 2017

In: CULTURA, LIBRI IN LIBERTà,

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-di Daniele Milazzo-

Leonardo Fibonacci: il nome può essere familiare per qualcuno, specie se si ha a che fare con la matematica. “Sequenza di Fibonacci” può far suonare qualche campanello anche per gli appassionati del Codice da Vinci, ma il nome è noto anche agli appassionati di Federico II e Castel del Monte; un po’ di pisani hanno studiato all’istituto che porta il suo nome.

Nel 1202 Leonardo pubblicò il Liber abaci. Uno studente di matematica vi dirà che è il testo che ha introdotto in occidente l’uso dei numeri arabi e dello zero, e questo è quanto solitamente riportato nei libri di testo delle scuole superiori. Sbagliando (semplificando) grossolanamente.

I numeri arabi – che Fibonacci correttamente chiama indiani – erano già conosciuti nel mondo latinofono cristiano almeno tra la fine del nono e l’inizio del decimo secolo. Lo stesso Fibonacci inizia il suo libro in XV capitoli come se si aspettasse che il suo lettore ideale conosca l’esistenza di questi numeri ma, in sostanza, non sapesse come usarli.

Ecco, a proposito, come inizia il Liber abaci? Così, semplicemente:

«Le nove figure degli indiani sono queste: 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Con tali nove figure, e con questo simbolo 0, che in arabo è chiamato zephir, può essere scritto qualsiasi numero, come sarà dimostrato più avanti».

Dopodiché passa le due pagine successive a spiegare come vanno messe le cifre, come leggere i numeri e come scriverli da destra verso sinistra procedendo per unità, decine, centinaia, eccetera. E basta: la terza pagina verte sul ripasso di una cosa che noi moderni abbiamo dimenticato, ovvero contare usando le dita. Non scherzo: Fibonacci fa un ripasso di come contare fino a diecimila curvando, unendo e incrociando le dita. Fine del brevissimo capitolo I.

 

Cambiavalute

Cambiavalute

E gli altri 14 capitoli? Dopo aver spiegato brevemente come fare addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni con i numeri indiani (capitoli 2-5) e accennato a come moltiplicare, sommare, sottrarre e dividere numeri interi e frazioni (capitoli 7-8) Fibonacci entra finalmente in argomento. Capitolo 8: L’acquisto e la vendita delle merci e simili. Seguito, per completezza, dal capitolo 9: I baratti delle merci, l’acquisto di monete e simili. Avendo trattato di merci e monete, il capitolo 10 è giustamente intitolato Le società fatte tra consoci, mentre il capitolo 11 preferisce approfondire La fusione delle monete e regole correlative.

Per completezza d’informazione va detto che il capitolo successivo (Questioni miscellanee) è in realtà la parte più corposa del libro e presenta centinaia di problemi con le relative soluzioni: un elenco di esercizi spesso copiati dalle raccolte contemporanee di al-Khwārizmī e di Abū Kāmil. I tre capitoletti finali tornano sulla matematica trattando di regole su come risolvere questi esercizi, il calcolo di radici quadrate e cubiche, regole di proporzioni geometriche e questioni di algebra.

Leonardo Fibonacci ha scritto questo libro non da matematico, ma da ragioniere appassionato di matematica. È un libro fatto per essere letto e usato dai mercanti come suo padre. Come lui stesso racconta nella dedica introduttiva:

«Quando mio padre, scrivano pubblico presso la dogana di Bùgia per conto dei mercanti pisani, fu incaricato di dirigerla, essendo io ancora fanciullo mi fece andare presso di lui. Essendosi reso conto dell’utilità e dei vantaggi che me ne sarebbero venuti in seguito, volle che là per un certo tempo stessi a studiare l’abaco e su esso venissi istruito. […] La conoscenza di tale arte molto mi piacque rispetto alle altre».

I problemi del Liber abaci derivano probabilmente da appunti di calcoli che lui e suo padre facevano realmente alla dogana per conto dei mercanti pisani. Riporto un problema a titolo di esempio: «se 100 rotoli di cotone si vendono a 43 lire, e ci si chiede quanto costino 19 rotoli […] moltiplica 19 per 43, che sarà 817, quindi dividi per 100». Per noi moderni il risultato sarebbe 8,17 ma Leonardo Pisano si sarebbe messo a ridere: per lui 1 lira di argento equivale a 20 soldi, o 240 denari. Perciò «saranno 7/100, 1/10, lire 8» ovvero, come spiega, 8 lire, 3 soldi, 4 denari e 4/5 di denaro.

Se fare affari con un sistema monetario così sembra complesso, aspettate a vedere cosa succede quando si devono confrontare sistemi differenti. Non a caso l’introduzione al capitolo 8 ricorda che «un càntare pisano è divisibile in cento parti, ognuna delle quali è detta rotulo; ogni rotulo ha 12 once, ogni oncia pesa 39 e ½ denaro di càntara; un denaro è 6 carrube e la carruba è quattro grana di frumento». E queste misure sono solo pisane.

Che tipo di calcoli servivano allora un mercante pisano del 1200 che commerciava in Algeria? Il calcolo delle proporzioni, innanzitutto. Ovvero equazioni semplici con un’incognita (il prezzo) relativo a merci che si vogliono comprare, scambiare o barattare. Per cui, se 20 braccia di panno valgono 3 lire pisane, e 42 rotuli di cotone valgono 5 lire pisane, quanti rotuli di cotone si possono acquistare in cambio di 50 braccia di panno? Fibonacci guida così il suo lettore:

«Scrivi dunque sulla tavola 20 braccia, e accanto scrivi 3 lire, cioè il loro prezzo. Sotto di queste scrivi 5 lire, accanto scrivi 42 rotuli. Scrivi poi 50 braccia [la quantità da scambiare] sotto 20 braccia».

Risulta lo schema seguente:

20 braccia      3 lire

                           /            \

50 braccia      5 lire   42 rotuli

Il problema continua così: «moltiplica 50 per 3, che stanno diagonalmente, fa 150; e moltiplicalo per 42, che pure è posto diagonalmente, e quello che viene dividilo per gli altri numeri, cioè per 20 e per 5. Il risultato è 63, e tanti rotuli di cotone si avranno per 50 braccia di panno». Se la divisione avesse dato una cifra con decimali, ad esempio 63,45 avremmo avuto 63 rotuli e 9 once – e sarebbe stato un calcolo semplice, tutto sommato. Altri esempi riguardano scambi tra merci come zafferano, pepe, zenzero e noce moscata, forme di cacio, cuoio, fustagno, panni di lino e cotone.

Ma al mercante pisano interessava sapere anche a quanto equivalessero le altre misure nei paesi dove commercia. «Se si è vicino alla Sicilia con una nave da carico con 11 càntari e 47 rotoli di cotone, e li si vuole ridurre in colli, un càntaro e mezzo di cotone è un collo, perciò quattro càntari di cotone sono tre colli e quattro rotoli di cotone sono tre rotoli di collo». Per questo Fibonacci ci informa che «un milliario di olio presso Costantinopoli equivale a 33 misure e mezzo, ed è venduto a 31 bisanti e 5/24» e che «un càntaro di lino o altre merci simili si vendono in Siria e ad Alessandria a 4 bisanti saracenati». Per calcolare a quanto si deve vendere queste ultime bisogna però sapere a quanto equivalgono i rotuli forforini e gerovini, usati rispettivamente in Siria e Egitto, e tener conto che monete d’oro come «i bisanti saracenati, o iperperi, sono di 24 carati», il che ci introduce a tutta una serie di calcoli e proporzioni tra le varie monete: si comparano lire e denari pisani con solidi imperiali, genovini e bolognini, libbre veneziane e tarì di Sicilia, mergugliensi e denari regali, lire tornesi e librae sterlingorum, solidi barcellonesi e massamutini almohadi.

Augustale di Federico II

Augustale di Federico II

Il mercante pisano del 1200 è sicuramente interessato a leggere con attenzione la parte dedicata ai cambi monetari, dove si legge che «una lira pisana vale 20 soldi, ma una lira bolognese vale più di 54 bolognini, cioè 20 soldi pisani valgono 24 e ½ soldi bolognesi». Si ha l’impressione che ci siano dei cambi più favorevoli di altri, motivo per cui si arriva a una serie di considerazioni sulle quantità di argento, rame e stagno che devono essere presenti nelle monete.

Qui c’è un’altra cosa che occorre sapere e che Fibonacci dà per scontata: le monete sono sì emesse dalla zecca di stato, ma è il privato che ha bisogno di monete a portare una certa quantità di metallo prezioso alla zecca per farlo fondere e ottenere le monete corrispondenti. Il mercante ha tutto l’interesse a calcolare quante monete gli spettano per non farsi fregare dagli ufficiali della zecca: ci sono una serie di leggi che regolano la percentuale di altri metalli – rame e stagno – all’interno di monete, e la zecca si sostiene grazie a un certo aggio che carica sul privato per ripagare i costi di fusione e l’acquisto di altri metalli per le monete che consegna. Ma come si sa, le leggi cambiano, per cui oltre ad avere tanti sistemi monetari si hanno quantità differenti di argento nelle monete della stessa zecca: «Quando diciamo: ho moneta a una qualsivoglia oncia, diciamo 2; si intende che in per una libbra di quella moneta ci sono due once d’argento». Seguono una serie di metodi di fusione per accertarsi delle effettive percentuali di argento e un paragrafo dall’esplicativo titolo «de equiparanda scharsa moneta cum larga».

Una volta conclusi i nostri affari con un certo margine, il nostro mercante pisano del 1200 ha un problema: come dividere i proventi? «Il profitto (lucrum) va diviso appropriatamente tra i soci», enuncia Fibonacci, per cui a ogni socio va un utile in proporzione al suo capitale iniziale. «Per prima cosa, secondo l’uso pisano, dal profitto va tolta la quarta parte» che spetta all’amministratore della società. Ah, che dolce sapore di capitalismo.

Dopodiché Fibonacci guida il lettore passo per passo in una sorta di Art Attack della ragioneria commerciale: «scrivi la parte del primo socio all’estremità destra della tavola, poi sulla stessa linea scrivi ordinatamente verso sinistra le parti degli altri soci, e all’altra estremità poni il profitto. Poi somma tutti i capitali, e metti da parte la somma. Con questa dividerai il prodotto del capitale di ogni socio per il profitto. In questo modo avrai quanto dell’utile totale tocca a ciascuno». Un file di excel non avrebbe potuto essere più ordinato. Da notare che Fibonacci, che è andato a scuola d’abaco nel mondo arabo, mantiene l’abitudine, nel riportare e registrare i numeri, di metterli in ordine da destra verso sinistra.

 

È chiaro quindi che questo libro sia stato, per l’epoca, un piccolo best-seller: ha avuto il pregio di introdurre i numeri arabi e lo zero a un mondo che non era quello dei monaci, veri intellettuali del tempo, ma dei mercanti in rampante ascesa. I numeri romani sono stati soppiantati gradualmente e con fatica. Nel 1280 a Firenze fu bandito l’uso dei numeri arabi ai banchieri: roba da pisani.

Il bando fiorentino cadde dopo poco: i numeri arabi sono comodi per far di conto, e con il XII secolo nascono e si diffondono le scuole d’abaco in Toscana e in Italia. Si usano problemi e brani di Leonardo Pisano, utilissimi ai giovani contabili, ma via via ci si concentra sulla parte matematica tralasciando quella commerciale. La spiegazione è semplice: non solo i prezzi delle merci cambiano, ma anche le monete. Alcune cadono in disuso – i solidi imperiali di Federico II di Svevia spariscono dalla circolazione – e altre nuove nascono, come il fiorino d’oro a Firenze nel 1252. Le unità di misure si modificano e l’aspetto pratico dell’opera di Fibonacci si cristallizza. Ciò nonostante, parlando delle opere di Leonardo, l’anonimo compilatore della Praticha d’arismetricha fiorentina del 1450 scrive che «sono queste opere in Santo Spirito e in Santa Maria Novella, e anchora nella Badia di Firenze e in particularità l’ànno molti nostri cittadinj».

Con il passare del tempo, però, il grande commercio toscano inizia a stagnare, come le acque del porto di Pisa; le scuole d’abaco chiudono, gli studi tecnici diventano più professionali, i matematici preferiscono leggere gli Elementa di Euclide – e se possibile nella versione stampata da Aldo Manuzio nel 1509.

La “riscoperta” di Leonardo Fibonacci la si deve a Baldassarre Boncompagni, il quale pubblicò la prima versione a stampa del Liber abaci. Quando? Nel 1857. Ed è anche l’unica: non esiste una traduzione completa del libro in italiano.

 


 

Per approfondire:

Scritti di Leonardo Pisano, vol. 1 e 2, Biblioteca della Scuola Normale Superiore di Pisa

 

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