-di Tommaso Chimenti-
Ci sono spettacoli che più di altri colpiscono, affascinano, entrano dentro. Anche se l’idioma è sconosciuto riescono a passare i confini linguistici toccando delle corde emozionali che si insinuano sottopelle, che si fanno strada per vie inspiegabili. E’ di questo che parliamo in questo terzo, e conclusivo, articolo del nostro reportage in terra canadese, al Fiams di Saguenay, in Quebec. Ed è il caso principalmente di “Ogre” (al mio primo posto se mi fosse richiesta una classifica) di Larry Tremblay e messo in scena da Dany Lefrancois
(uno dei due direttori artistici del festival insieme a Benoit Lagrandeur) e prodotto da La Tortue Noire e Theatre La Rubrique. Pur essendo il testo verbosissimo, ma mai noioso o appesantito, colpisce dalla prima all’ultima scena, questo gigantesco puppet, un Golem di circa quattro metri, nudo e gommoso, morbido come un giocattolo ma duro e perfido, scostante e anaffettivo; quindi da una parte avvolgente e infantile, dall’altra respingente e ripugnante. Ma entriamo nel vivo, andiamo al sodo, prima della vicenda e successivamente della messinscena. Questo immenso, ciclopico, esagerato mostro, appunto “Orco” sviluppa le sue parole, annegando e affossandovi dentro le altre comparse, ha attorno a sé figlio, moglie, figlia e amante ed è aberrante il suo percorso che porterà all’uccisione dell’amante, all’umiliazione della moglie, all’incesto con la figlia, al tentativo di suicidio del figlio. Sullo sfondo di tutto questo un uomo che ha perso il controllo e i contorni della propria esistenza credendo di essere diventato il personaggio principale, il protagonista di una fiction, di un reality basato sulla sua vita, sulle sue imprese. Il confine tra il reale e la finzione viene così scardinato, come viene attraversato quello tra pupazzo (anche se enorme) e la sfera attoriale. Già perché, e qui siamo nella sfera puramente tecnica-teatrale, la voce del pupazzone viene data da un attore al mixer, attore sempre in scena, lateralmente, ma che, andando avanti, entrerà in contatto e in conflitto con il corpo al quale sta prestando le corde vocali in uno slittamento, in uno scarto tanto interessante quanto angosciante: il corpo che si ribella a chi lo sta muovendo e direzionando, esigendo libertà e autonomia. Il puppet viene mosso da tre performer che, faticosamente, alzano braccia e gambe e lo movimentano sulla scena ma, al tempo stesso, incarnano, a turno, le figure che stazionano, passivamente, attorno all’Orco e dal quale vengono vessate, schiacciate (anche fisicamente), brutalmente sottomesse. Alla fine il pupazzo giace a sedere, stanco, come un vecchio gorilla allo zoo che ha troppo scimmiottato gli umani dal vetro: un teatro duro, coinvolgente, estremo, di forte impatto psicologico.
Con solo l’uso e l’utilizzo di un tavolo in teatro si possono creare mille mondi, far immaginare qualsiasi cosa. E si ritorna bambini dove, forse, il teatro ha inizio con l’immedesimazione, il gioco, i piccoli oggetti che, con la fantasia, diventano magicamente altro. E’ il caso (oltre che del grandissimo “Mi gran obra” di David Espinoza) del “J’ai tué le monstre” (della compagnia francese Roi Zizo) di Gildwen Peronno vero performer folle e funambolo eccentrico. Su di un tavolo che ricorda quelli scolastici, questo manipolatore d’oggetti riesce a ricreare un piccolo villaggio, con trovate esilaranti, dove accadono storie macabre e racconti raccapriccianti come dentro un horror. E sono proprio le pellicole splatter e noir, da Laura Palmer fino ad Hitchcook, che fanno capolino e rima con le scene che Peronno (anch’egli partecipa ed “entra” nella storia: con maschera e boccaglio, vestito alla tirolese) idea e realizza mettendo in scena questo strano blob che cola e uccide e imbriglia e imprigiona la piccola cittadina tranquilla di montagna dove regnava amore e pace, serenità e silenzio. Si ride fino alla morte (di tutto il paese): un teatro geniale, eversivo, conturbante, per tutte le età.

Gildwen Peronno invite les amateurs du théâtre d’objets à plonger avec lui dans son univers personnel.
Ed eccoci all’ultimo roboante spettacolo, piccolo, talmente infinitesimale, creato soltanto con le mani, sulle mani, da diventare manifesto ed emblema, icona e simbolo delle infinite possibilità che il teatro, dalla parte attoriale come da quella del pubblico, regala, dona e può e sa continuamente dare, rinnovandosi. “Vida” dello spagnolo Javier Aranda è un concentrato di sentimento ed anima, di sorrisi e commozione, di empatia e vicinanza.
Due mani, dieci dita per farci immaginare due personaggi, un ragazzo e una ragazza, che nascono poi si incontrano, si innamorano, fanno una famiglia, invecchiano e lasciano questo mondo. Il tutto con una poesia, una delicatezza, una raffinatezza, una dolcezza e gentilezza senza eguali. Dopo poco, quando le mani si intrecciano, vediamo e ci immedesimiamo nei due protagonisti, novelli Adamo ed Eva, nuovi Romeo e Giulietta. Le due mani interagiscono con l’autore lì dietro di loro, burattinaio senza fili, addirittura le mani chiedono al loro demiurgo di andarsene e allontanarsi ma non può, nell’impossibilità di lasciarli da soli, di dar loro quell’intimità che cercano: un teatro soffice, fragile, sensibile, dallo stupore semplice fino alle lacrime.