di Tommaso Chimenti
Nelle ultime stagioni si è vista sulle scene italiane, giustamente, una rivalutazione delle drammaturgie di Annibale Ruccello (soprattutto grazie ad Arturo Cirillo). Ho parlato di “scene italiane” perché sarebbe riduttivo, e grave, limitare geograficamente a Napoli e dintorni la scrittura dell’autore de “Le cinque rose di Jennifer”. Le sue parole sono tutt’oggi contemporanee, vive, piene di ritmo, affatto datate o temporalmente arginate in una bolla cronologica conclusa. Sentire oggi Ruccello non è aprire una finestra sul passato ma spalancare la porta e far entrare aria fresca tanti sono i piani di lettura, le sfumature, le pieghe, i rimandi, anche linguistici, le possibilità del testo e della sua resa scenica. La perdita, per tutti noi, è la sua scomparsa a soli trenta anni (’56-’86).
E’ così anche per “Ferdinando” (prod. Teatro Segreto, regia Nadia Baldi), testo che si porta sulle spalle grandi interpretazioni al femminile: la storica edizione con Isa Danieli, come quella con Adriana Asti, un concentrato ed agglomerato di stratificazioni che monta ad ogni scena, si autoalimenta come scintilla sulla paglia, comincia a scoppiettare, ad alzare il tiro, tra ironia, amarezze e cinismo tragicomico. Quest’interno aristocratico decaduto e polveroso diventa terreno di battaglia, Campo di Marte dove asserragliarsi e contrattaccare come Vietgong nella boscaglia, sferrare colpi, creare alleanze, stringere patti fragili per non cadere, per salvarsi, per riuscire a stare a galla, soprattutto con se stessi, per non far cadere il grande castello di carta (e segreti) che i tre personaggi (la Baronessa, la Cameriera, il Sacerdote) si sono raccontati.
In questa casa ammuffita e ovattata, dove l’unica arma plausibile è rimasta quella cattiveria sorda così acida quanto manierata, i ruoli, al netto di scaramucce quotidiane e di giornalieri assestamenti, sono prestabiliti da anni di routine pericolosa, in equilibrio instabile: la Baronessa (Gea Martire esplosiva, catalizzante, magnetica) malata immaginaria molieriana (distesa a letto appara tra le pieghe del lenzuolo come un Cristo Velato), avida, intimorita dalla vita e autoreclusa nella sua magione e camera da letto cerca conforto alla sua condizione di insoddisfazione nella sudditanza dei suoi sottoposti che sperano in qualche briciola-obolo, la Serva (Chiara Baffi espressiva ed enfatica), costretta a subire le angherie dell’anziana parente, che tenta ogni tanto di tenerle testa ed alzare la cresta e dopo mille battibecchi frizzanti e frustranti deve rientrare nei ranghi, il Prete affettato (Fulvio Cauteruccio conturbante, materico) che in quella casa fa lo struscio tra oblazioni e preghiere, pater noster e segni della croce, che però cede volentieri alla carne (etero come omosessuali) e ai piaceri terreni. Ognuno di questi tre ha una doppia morale, quello che mostra da una parte e quello che è realmente dall’altra, ciò che nasconde, un chiaroscuro che però emerge, trabocca, fa capolino di tanto in tanto, quella parte nera che è tenuta con fatica a freno, in questo trittico asfissiato dal “controllo sociale” che ognuno dei tre pratica sugli altri immersi in questo microcosmo senza più ossigeno. Praticamente una pentola a pressione che ha bisogno soltanto di un granello di sale, di una minima scossa, di un lieve tocco esterno per esplodere, deflagrare (finalmente), liberando le vere pulsioni viscerali dei tre.
I cromatismi sono importanti: la Signora è in bianco, perché pare inferma e bisognosa di cure ed attenzioni, la Cameriera è in nero, perché è giovane e procace e, a differenza della Zia, sembra avere davanti tutta la vita e pare essere la sua carceriera che prende sottogamba i suoi malanni, il Prete è in nero per la sua doppia morale, da una parte il Vangelo dall’altra la mano morta. Si attende, come nei migliori thriller sottili e psicologici, la classica goccia che fa saltare il banco, la leva che apre il Vaso di Pandora fin lì custodito: è in arrivo l’angelo nero (in bianco, perché qui il candido all’apparenza porta sempre con sé il rovescio della medaglia), il ragazzo, appunto Ferdinando, che mescolerà le carte e insegnerà-costringerà, a suo modo, con la sua ferocia sorridente, con la sua carezza melliflua erotica e mefistofelica e le sue strategie distruttive, ogni altro personaggio a prendersi quelle responsabilità che aveva sempre rifuggito dietro un abito, una posa, una convenzione ormai assodata.
In questo allestimento di Nadia Baldi è interessante la scena con funi e corde appese che ciondolano con pezzi di bambolotti quasi presagio di impiccamento, così come le campanelle e i campanacci, anche queste sintomo d’allarme, che qualcosa sta per cambiare prepotentemente, indelebilmente, a sovvertire il faticoso ordine costituito e costruito negli anni dal terzetto-Trittico Padrona-Serva-Pastore. Bellissimi i girelli con le rotelle arrugginite che diventano troni, carrozzine da passeggio per infanti, confessionali o sedie da giudice di tennis o ancora gogne dalle mille sfaccettature così come le pareti di lastre di rame battute che evocano un incidente imminente, una catastrofe che prima o poi si abbatterà sulla placidità forzata dell’interno. Ferdinando (il bravo ed energetico Francesco Roccasecca, bell’impatto il suo) arriva, con dolcezza acre, a sconquassare il rapporto di dipendenza tra la Signora e la Governante, che si danno battaglia (sembrano Tom & Jerry o Bip Bip & il Coyote ma senza nessun vincitore, entrambe perdenti) su un letto di un ping pong salace ed acutissimo, un botta e risposta acidissimo ed efficace di attacchi e rinculate, di aggressioni e scuse penitenti.
Ferdinando (la figura tratteggiata con freschezza e meticolosità da Roccasecca ci ha ricordato “Match Point”, pellicola di Woody Allen, come “Il talento di Mr Ripley” di Minghella) è la scintilla dannunziana che obbliga i tre, legati a doppio filo nell’esercizio delle loro pulsioni, tra sottomissioni e arroganze, tra sadismi e masochismi, ad uscire allo scoperto e finalmente espiare la propria vergogna mettendo in piazza la loro vera natura coperta, negli anni, da chilometri di sovrastrutture, di atteggiamenti, di finzioni di facciata. I tre si difendono attaccando quando il loro vero Io emerge troppo e sentono di essere in pericolo perché scopertisi troppo all’occhio del “nemico”. E’ tutto un gioco subdolo di minacce e ricatti, di strategie e macchinazioni machiavelliche (anche macbethiane), un tetris di bluff pokeristici in questo stallo dove, prima dell’avvento dell’angelo della morte, vince la paura di vivere. Ferdinando, con il suo carico amaro, aspro e maligno, in qualche modo incarna anche la Verità che pulisce, spazza via le menzogne: un angelo che porta, con il Male, il Bene. Un testo salvifico (che affronta la questione storica del Sud e dell’unificazione-annessione, quella linguistica tra il napoletano e l’italiano, quella di classe, quella generazionale e infine quella omosessuale) per una messinscena assolutamente all’altezza.