Fenomenologia renziana, ovvero Viaggio immaginario nel cervello di Renzi

-di Stefano Fabbri-

(foto di copertina Foto Roberto Monaldo / LaPresse)

Ma cosa ha in testa Matteo Renzi? Difficile saperlo. Tuttavia qualche tentativo di rintracciare il percorso che l’ex rottamatore, ex sindaco di Firenze, ex premier ed ex segretario del Pd ha in mente, dopo aver compiuto un rapido dietrofront sul versante dei rapporti con i Cinquestelle e aver fondato un partito tutto suo, si può tentare. La strada intrapresa da Renzi ha un’origine antica che forse è bene ripercorrere per tappe sommarie.

Da: ilfoglio.it

In inizio fu il referendum, la prova del fuoco, quello che con un sonoro 60/40 disse no alla sua riforma costituzionale e soprattutto a lui. I cicli politici degli ultimi anni sono brevissimi ed il suo si era consumato nell’arco di pochi mesi, dal successo del Pd alle Europee di cinque anni fa al minimo storico dei Dem registrato alle politiche del 2018, quando il Rignanese non era più formalmente segretario e aveva lasciato l’oneroso scettro a Maurizio Martina. Poi il vado, non vado, smetto di fare politica, no non smetto, che neanche nei migliori primi film di Nanni Moretti. Il non-segretario per la seconda volta si interroga se lasciare la scena politica o meno, ma la domanda che rivolge a se stesso è solo retorica. E così, mentre i maggiorenti di un Pd sotto choc per il risultato elettorale, in prima fila Dario Franceschini, tentano di reagire provando ad intessere un rapporto con il M5s, cancellando dalla memoria l’imbarazzante confronto streaming con Bersani del 2013, Renzi lascia che essi si muovano. Anzi, probabilmente incoraggiandoli. Ma alla fine di aprile dello scorso anno getta loro addosso un bel secchio di acqua gelata in diretta tv: ospite di Fabio Fazio, dice che il Pd ha perso e dunque deve trarne le conclusioni e lasciare che governino i partiti che hanno vinto, inaugurando così una indigesta dieta a base di pop-corn. Di fatto è quasi un incoraggiamento al contratto tra Lega e M5s, in barba a quanto si insegnava nelle sezioni dei partiti nella vituperata e mai troppo rimpianta Prima Repubblica, e cioè che se hai due avversari devi dividerli e non spingerli l’uno nelle braccia dell’altro. Il piano che sembrava già limato nei particolari si infrange dunque sul niet del non-segretario. I motivi di quel diniego, pronunciato dalla tolda del vascello fantasma del Pd che senza timoniere si avvia, carico di pop-corn, verso gli scogli della irrilevanza (lo sfortunato precedente dell’Aventino è stato invocato a sproposito in questo caso), restano ancora un mistero.

Il vascello fantasma, da: https://www.3pietre.it/olandese-volante/

Nei rumors si coglie il fatto che tutto era pronto, anche la rinuncia di inserire nel nuovo esecutivo poi mai nato lo stesso Renzi ed i suoi fedelissimi, come Maria Elena Boschi. Una condizione che almeno lui avrebbe accettato. Ma così è e nasce il Governo del Cambiamento. Il resto, almeno fino alla seconda metà di agosto, è una storia scritta tutta in giallo e verde, anche durante il mandato di Nicola Zingaretti alla segreteria che coincide con le elezioni europee che vedono trionfare la Lega di Matteo Salvini ed un forte ridimensionamento del M5s. Un esito che spinge Salvini a provocare una crisi che, come è ormai arcinoto, non ha avuto l’esito che il Capitano si augurava e cioè le elezioni politiche anticipate. 

E’ in quel preciso momento, dettato probabilmente anche dal timore di non poter reggere una nuova prova elettorale, che Renzi ordina il “contrordine compagni” e l’inguardabile diventa desiderabile, l’impossibile diventa probabile e, come nella fine di un incantesimo, lui libera il Pd, finora tenuto in ostaggio e obbligato a ripetere il mantra “mai-con-i-Cinquestelle”, lanciando l’idea di un governo con Di Maio. Stupore, sorpresa, ammirazione per la disinvoltura e anche un po’ di rabbia per il tentativo naufragato appena poco più di un anno prima. Ma, detto fatto, il partito si adegua, con qualche slittamento di frizione e alcuni (pochi) mal di pancia. Matteo (Renzi) è intelligente, sa fare politica, ancora una volta l’ha azzeccata. I complimenti e gli aggettivi si sprecano. In realtà ne basterebbe uno solo a sintetizzare le sua capacità: abile. E nell’abilità i risultati si vedono. Eccoli: 1) un nuovo governo spinge in avanti nel tempo il rischio di elezioni anticipate nelle quali il Pd potrebbe magari riportare segni di miglioramento ulteriori rispetto a quelli fatti registrare alle europee, ma i suoi gruppi parlamentari vedrebbero un forte ridimensionamento della maggioranza renziana al loro interno, sulla base di liste questa volta fatte e validate dal nuovo segretario Zingaretti; 2) proprio Zingaretti, ripresosi in tempo grazie ad un carpiato con doppio avvitamento ma che confidava nelle elezioni per regolare i conti interni, esce spiazzato per diversi giorni dalla proposta di Renzi; 3) la fase politica europea che si apre, e Renzi lo ha capito, sarà determinata da scelte meno rigoriste anche a causa delle difficoltà incontrate da partners forti, come la Germania alle prese con la questione del suo surplus commerciale e con un’architettura finanziaria fragile che vuol continuare a contare sulle politiche di quantitative easing varate da Mario Draghi, con buona pace dei falchi dei Paesi nord-continentali: tutto fa pensare che il futuro di Dombrovskis, nonostante l’altisonante carica di vicepresidente della Commissione, sia niente affatto radioso; 4) sempre sul piano europeo a Renzi non è sicuramente sfuggito il lavorio del presidente uscente della Commissione Juncker, teso a separare i Cinquestelle dalla Lega, o il voto al Parlamento europeo di un anno fa (a pochissimi mesi dalla formazione del governo giallo-verde) nel quale gli europarlamentari italiani di Salvini e del M5s si espressero in modo opposto sulle “sanzioni” politiche all’Ungheria di Orban, ma soprattutto la frenata della Ue sull’ipotesi di procedura di infrazione nei confronti dell’Italia ed il voto, ancora una volta differenziato, sul nuovo presidente Ursula von der Leyen; 5) se una telefonata allunga la vita, figuriamoci una prosecuzione di legislatura almeno fino all’elezione del Presidente della Repubblica del 2022: tutto tempo guadagnato per rafforzarsi da una posizione che vede i parlamentari renziani già maggioranza nel Pd. Insomma, lasciando la parte l’abbastanza melensa narrazione della salvezza dell’Italia dalle fauci del sovranismo salviniano, cinque buoni motivi per provarci e poi per riuscirci.

Da La 7

Si arriva così all’ultimo atto, ma solo in ordine di tempo, e cioè la nascita di Italia Viva da una scissione del Pd, ma solo – è bene ricordarlo – dopo aver messo in sicurezza gli scranni parlamentari occupati dalla nutritissima pattuglia renziana. Il tema della scissione e di un nuovo partito ad immagine e somiglianza di Renzi ha “tenuto” sulle pagine dei giornali ormai da molti mesi ed ha agitato il sonno dei dirigenti Dem. Ma le condizioni per concretizzare il progetto ora ci sono tutte e scissione sia. Soprattutto dopo aver piazzato una pattuglia tutt’altro che trascurabile tra ministri e sottosegretari. Anche se, e qui forse c’è un altro possibile motivo della scissione, quelle ancora più appetibili sono le cariche nella miriade di potentissime società partecipate, dalle poste alle ferrovie: una ripartizione alla quale il nuovo partito può ora partecipare con piena titolarità, senza dover mediare con le altre correnti del Pd. E con in più la sottile soddisfazione di sedersi a quei tavoli beffandosi della conventio ad excludendum dettata dal M5s: “mai vogliamo avere a che fare con Renzi o Boschi”. L’occorrente per un nuovo partito c’è tutto, come nel “Piccolo chimico”: c’è una base composta da quei Comitati civici lanciati alla Leopolda nell’autunno del 2018, ci sono gruppi parlamentari autonomi formati dai fedelissimi a Renzi e guidati da personalità non proprio del tutto apprezzate dal Pd a trazione zingarettian-franceschiniana, come Maria Elena Boschi e Davide Faraone, che il Pd ha rimosso dalla carica di segretario regionale in Sicilia a causa della opacità del modo in cui è giunto a tale posizione. Ci sono anche renziani che hanno deciso di restare nel Pd, denunciando l’ “errore” di Renzi seppure con le lacrime agli occhi e con il giuramento che mai e poi mai lo considereranno un avversario. Una permanenza, la loro, che ha fatto sospettare taluni che si tratti di un modo scelto da Renzi per avere alleati neanche troppo occulti per i rapporti con il suo ormai ex partito. Una sorta di paghi uno prendi due, insomma.

MARIA ELENA BOSCHI E MATTEO RENZI – Assemblea del Pd all’hotel Ergife di Roma – fotografo: Imagoeconomica

Il pullman di Veltroni nel 2008

Il pullman di Veltroni nel 2008

Cosa manca? Al momento difetterebbero un po’ gli elettori: le stime non superano il 5%, ma in un sistema proporzionale è sufficiente per avere un ruolo interdittivo: un po’ come accadeva – ma il paragone è assai azzardato e poco generoso nei confronti dello statista socialista – con il Psi di Bettino Craxi. Un gioco rischioso, però: tirare la corda prospettando eventuali crisi di governo, che stavolta non potrebbero che avere come sbocco in ritorno alle urne, potrebbe dimostrarsi un’arma a doppio taglio. Anche in considerazione del fatto che, storicamente, l’elettorato non ha mai premiato, nella storia repubblicana, i responsabili di uno scioglimento anticipato del Parlamento. Un’altra assenza pare essere anche quella di un sostegno economico che non è mai mancato nell’era d’oro del “renzismo”, complici forse una caduta della tensione innovatrice che dalla Leopolda si irradiava verso l’impresa e la finanza e, forse, l’attenzione con cui adesso un’altra Finanza (quella maiuscola e preceduta dalle parole Guardia di) si muove nei confronti della fu Fondazione Open che ha funzionato per anni anche come collettore dei fondi per sostenere l’attività politica di Renzi. Tuttavia la cartina di tornasole saranno le ormai imminenti elezioni regionali, per le quali il Pd si appresta a verificare alleanze sotto varie forme con i nuovi partners del governo nazionale. Italia Viva, il nuovo partito di Renzi, non si presenterà (ad ora) alle competizioni che si profilano in Umbria, in Emilia Romagna, in Calabria ed in Toscana. Ed i suoi sostenitori che faranno? Appoggeranno i candidati di centrosinistra o frugheranno tra gli avanzi dei sacchetti di pop-corn?

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