-di Rino Alessi- Che cosa rende speciale Ezio Bosso, nato a Torino, il 13 settembre del 1971 in una famiglia operaia e morto, come tutti sanno, a soli quarantotto anni, pochi giorni fa nella sua casa di Bologna, e quindi il 15 maggio dell’Annus pandemico 2020?
Direi tutto: la personalità estroversa e la malattia neurodegenerativa devastante. La passione divorante per la musica e la capacità di comunicare in modo diretto. L’amore per la vita, ben sostenuto dalla musica, e la capacità di essere a disposizione degli altri.
Ezio Bosso, direttore d’orchestra, compositore e pianista, non è stato – per citare il titolo di un recente volume – una scimmia egoista.
Quando l’amore per la vita diventa musica
Durante l’infanzia e l’adolescenza ha vissuto, in Borgo San Donato, nella Torino operaia, culla della prima immigrazione dal Sud, in cui, raccontava, la sua famiglia era “la sola piemontese di tutto il caseggiato”.
Alla musica si appassiona all’età di quattro anni, grazie ad una prozia pianista e al fratello musicista. In conservatorio conosce Oscar Giammarinaro, che in seguito divenne il cantante degli Statuto, e per circa un anno e mezzo suonò, giovanissimo, con questo gruppo pop con il nome d’arte di Xico, fin quando ne fu cacciato, “perché producevo troppe note”, come disse scherzando. Con gli Statuto Bosso incise l’album di debutto Vacanze, pubblicato dalla Toast Records.
Degli anni di conservatorio il Maestro ha spesso ricordato di aver avuto un docente che gridava e talora alzava le mani e che un giorno, durante uno di questi maltrattamenti, vide entrare in aula un uomo che chiese a Bosso di ripetere l’esercizio, si rivolse al docente e gli disse: “A me sembra molto bravo. Perché grida?”; l’uomo era John Cage cui Bosso avrebbe in seguito dedicato il brano “Dreaming tears in a crystal cage”
Tutto nella vita di Ezio Bosso, è arrivato molto presto, morte compresa e a sedici anni esordì come solista in Francia e incominciò a girare per le orchestre europee. Fu l’incontro con Ludwig Streicher a segnare la svolta della sua carriera artistica, indirizzandolo a studiare Composizione e Direzione d’Orchestra all’Accademia di Vienna.
Gli anni della malattia di Ezio Bosso e la voglia di continuare
Nel 2011 subì un intervento per l’asportazione di una neoplasia cerebrale e fu anche colpito da una sindrome autoimmune neuropatica. Le patologie inizialmente non gli impedirono di continuare a suonare, comporre e dirigere. Il peggiorare della malattia neurodegenerativa, che avvenne in quello stesso anno e che all’inizio i media indicarono erroneamente come SLA, lo costrinse, nel settembre del 2019 a interrompere l’attività di pianista.
Dalla primavera del 2017 Bosso è stato testimone e ambasciatore internazionale dell'”Associazione Mozart 14″, eredità ufficiale dei principi sociali ed educativi del Maestro Claudio Abbado, portati avanti dalla figlia Alessandra.
Negli anni Novanta del secolo scorso partecipò a numerosi concerti sulla scena internazionale, dalla Royal Festival Hall di Londra, alla Sydney Opera House, dal Palacio de Bellas Artes di Città del Messico al mitico Teatro Colón di Buenos Aires, dalla Carnegie Hall di New York alla Houston Symphony, e, in Italia, al Teatro Regio di Torino e all’Auditorium Parco della Musica di Roma. In queste occasioni Ezio Bosso si esibì sia come solista sia come direttore, o in formazioni da camera. Nel contempo svolse attività didattica in Giappone e a Parigi, partecipando alla vita musicale della scena contemporanea di quegli anni.
Esaurito un incarico analogo al Comunale di Bologna, dal 1° ottobre del 2017 Bosso fu invitato dal Sovrintendente Stefano Pace a ricoprire l’incarico di direttore stabile residente presso il Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste. Fu questa l’occasione in cui sentii, confesso la mia ignoranza, parlare per la prima volta di lui.
La decisione di Pace, che era da poco stato nominato Sovrintendente a Trieste, suscitò perplessità e polemiche fra i puristi che consideravano Bosso troppo pop per un teatro di grande tradizione musicale come il Verdi.
Non potei partecipare alla conferenza stampa in cui fu annunciata la nuova collaborazione, perché si svolse a Milano.
Certo è che, chiamando Bosso, il Teatro Verdi si muoveva in cerca di grande visibilità che fu ottenuta solo in modo parziale, almeno in un primo tempo.
Quando assistetti ai concerti che Bosso diresse al Teatro Verdi, fui colpito innanzitutto dal fatto che erano frequentati da un pubblico diverso da quello abituale.
Molte persone raggiungevano Trieste apposta per partecipare alle manifestazioni che Bosso dirigeva e questa mi sembrò, lo scrissi, un’ottima cosa.
Come direttore, nelle condizioni in cui era, era difficile chiedere a Bosso la perfezione, costretto com’era alla sedia a rotelle a causa dell’aggravarsi della malattia. Mi stupì il suo modo diretto di comunicare e la sua vena didattica che si manifestò, mi testimoniarono amici che assistettero agli incontri, anche nelle manifestazioni in cui il Teatro Verdi lo coinvolse a favore del pubblico universitario.
Ezio Bosso sapeva far appassionare alla musica d’arte anche chi frequentava esclusivamente quella pop. Non è una cosa da tutti.
Il suo sogno amava ripetere, era che un’orchestra gli chiedesse di fare un programma tutto Beethoven, “Così finalmente dirigo il mio papà musicale. Se mi si chiede cosa mi piacerebbe dirigere, torno all’infanzia: Beethoven, Má vlast di Smetana e Les préludes di Liszt. A cinque anni, ascoltandoli di nascosto, sognai di dirigere.”.
Lasciata Trieste, Ezio Bosso continuò a mietere riconoscimenti e frequenti, erano i passaggi in televisione, in cui, mi si disse, avrebbe voluto coinvolgere l’Orchestra stabile del Teatro Verdi. Il 20 giugno del 2019 gli fu riconosciuta la cittadinanza onoraria di Roma e gli fu attribuito il Cremona Musica Award nella categoria comunicazione. Nel 2020 ricevette la cittadinanza onoraria di Busseto, culla verdiana della musica.
“Era un’anima pura”
Ha dichiarato chi l’ha conosciuto bene, ossia Angelo Bozzolini, coideatore e direttore artistico delle due serate evento di RaiTre Che storia è la musica, aggiungendo: “E’ un grande peccato che il mondo della musica classica, caratterizzato da gelosie e lotte intestine lo abbia sempre costretto a lottare per strappare una data.”
In quelle occasioni televisive Ezio Bosso ha coraggiosamente dimostrato come la musica classica, tradizionalmente percepita (e preservata) come un genere “alto”, potesse essere di tutti: ne era testimonianza la sua convivenza con una dolorosa malattia neurologica degenerativa, alleviata proprio dal potere terapeutico della musica.

© Mattia Balsamini/Luz Photo
Anche il debutto all’Arena di Verona, dove sarebbe dovuto tornare l‘estate prossima con il suo papà musicale Beethoven e l’immortale Nona Sinfonia, fu un trionfo.
La morte ha messo la parola fine a questa dolorosa vicenda ma resta la musica
Del resto un catalogo di cinque opere, quindici lavori per la danza, diciotto musiche di scena, cinque sinfonie, trentatré lavori per orchestra, quindici pezzi per due strumenti, undici per trio, sedici quartetti, quindici per strumento solo, diciotto per voce e strumenti, sei per organico misto e quindici colonne per i film di qualità come quelli di Gabriele Salvatores Io non ho paura (2003), Quo vadis, baby? (2005), Il ragazzo invisibile (2014): composizioni che hanno ricevuto la nomination ai David di Donatello, non è uno scherzo.
E’, viceversa, una produzione compositiva ragguardevole, che molti hanno conosciuto solo quando Bosso apparve come ospite al Festival di Sanremo 2016, esordendo con l’ineffabile Carlo Conti con un: “Che ci faccio qui? Mi hai fregato, sono emozionato, così parlo peggio del solito”.
Era il suo modo di comunicare. Semplice, spontaneo, diretto, vero. E’ per questo che Ezio Bosso è piaciuto al pubblico, ma non ai potenti. E, ciononostante, entrerà nella storia della musica, almeno di quella passata in tv.
21 maggio