Elbrus di Marco Capocasa e Giuseppe Di Clemente (Armando Curcio Editore, collana Electi) è un romanzo ambientato in un XXII secolo in cui il progressivo aumento della temperatura media globale ha portato conseguenze devastanti.
Nel suo universo narrativo, fenomeni come lo scioglimento dei ghiacci ai poli, la desertificazione e il progressivo degrado dei suoli sono stati largamente sottovalutati dai governi e dalla stessa opinione pubblica, e hanno iniziato a compromettere seriamente la sopravvivenza degli esseri umani e delle altre specie animali e vegetali del pianeta Terra.
La fascia equatoriale è stata progressivamente abbandonata perché troppo inospitale, mentre nelle aree tropicali continuano a sopravvivere sparuti gruppi umani e gran parte della popolazione mondiale si è rifugiata nelle fasce temperate e nelle zone polari e subpolari.
Le migrazioni climatiche hanno inciso in maniera determinante a livello sociale ed economico, producendo nuovi equilibri geopolitici associati al sempre più insostenibile sovrappopolamento di aree limitate del pianeta. Tutto questo ha costretto l’umanità a fare i conti con il più grave dei problemi: la scarsità di risorse e le conseguenti enormi difficoltà nel garantire la sopravvivenza stessa del genere umano.
La lettura di alcuni dei più recenti studi riguardanti le conseguenze del riscaldamento globale ci ha fornito gli spunti iniziali per definire questo scenario. Soprattutto il lavoro di Patricia Nayna Schwerdtle e colleghi, Human mobility and health in a warming world, pubblicato nel gennaio 2019 sul Journal of Travel Medicine, e l’articolo di Chang-Eui Park e collaboratori, Keeping global warming within 1.5° C constrains emergence of aridification, pubblicato l’anno prima su Nature Climate Change.
Da qui, viaggiando con la nostra fantasia, abbiamo iniziato a costruire il futuro immaginario e catastrofico in cui si sviluppano le vicende di Elbrus
Se il riscaldamento globale rappresenta il tema che fa da sfondo al romanzo, l’attualità scientifica ci ha offerto altre importanti spunti, in particolare quelli relativi ai progressi delle biotecnologie e dei più moderni metodi di manipolazione genetica.
La nostra principale fonte di ispirazione da questo punto di vista, e non poteva essere altrimenti, è stata la famosa tecnologia di editing genomico denominata CRISPR-Cas9, la quale consente di guardare a un futuro prossimo in cui si potranno curare malattie genetiche cambiando le sequenze nucleotidiche, per sostituirle con altre e trasformare cosi geni da difettosi a funzionanti.
Grazie allo sviluppo di questo metodo, le due scienziate Emanuelle Charpentier del Max Planck Institute for Infection Biology di Berlino e Jennifer Doudna della University of California di Berkeley, hanno ricevuto lo scorso anno il Premio Nobel per la Chimica.
Nel romanzo Elbrus ci siamo spinti anche oltre la manipolazione del genoma, arrivando fino alla frontiera della clonazione umana, cercando di conservare un’attenzione particolare agli inevitabili problemi etici e sociali connessi a queste pratiche.
Da questo punto di vista, siamo stati influenzati dal clamore che ha suscitato nel 2018 l’annuncio con il quale Zhen Liu e altri ricercatori del Science Institute of Neuroscience di Shanghai hanno informato il mondo di essere riusciti a clonare con successo esemplari di macaco, un primate che condivide con la nostra specie circa il 93% del genoma.
I personaggi di Elbrus si muovono in un universo in cui abbiamo rispettato le preponderanti posizioni della comunità scientifica riguardo all’impossibilità di poter superare la velocità della luce
Un universo che, tuttavia, offre “scorciatoie” inimmaginabili, simili ai cosiddetti wormhole, sorta di ponti che già nel 1935 Einsten e Rosen avevano ipotizzato nel loro The particle problem in the general theory of relativity.
Siamo partiti proprio da qui per rappresentare una visione non lineare e disomogenea dello spazio e del tempo, riproponendo in chiave fantascientifica l’incontro fra la teoria della relatività e la quantistica.
Abbiamo guardato in particolare all’ipotesi di una “schiuma quantistica” dove si formerebbero e dissolverebbero in un istante cunicoli o scorciatoie attraverso lo spazio e il tempo. Questa idea, che già negli anni Cinquanta era stata formulata dal fisico teorico americano John Wheeler, ha recentemente trovato nuovo sostegno dall’analisi statistica dei dati preliminari ottenuti dall’osservatorio per neutrini IceCube, in Antartide, e dal telescopio spaziale Fermi della Nasa.
La nostra fascinazione per tutto questo dipende in particolare dai risultati di uno studio condotto da Giovanni Amelino-Camelia e collaboratori, In vacuo dispersion features for gamma-ray-burst neutrinos and photons, pubblicato su Nature Astronomy nel giugno 2017, secondo il quale lo spazio-tempo potrebbe essere granulare, proprio come una “schiuma”.
Partendo da queste premesse, abbiamo immaginato l’esistenza di una civiltà aliena, caratterizzata da un livello di progresso tecnico-scientifico tale da consentirle di ingegnerizzare veicoli in grado di viaggiare a una velocità prossima a quella della luce, sfruttando le fessure dello spazio-tempo per raggiungere luoghi che, per la loro distanza siderale, sarebbero altrimenti risultati irraggiungibili.
Se questa civiltà aliena è così progredita, al contrario il sapere scientifico della nostra umanità in Elbrus non appare essere in grado di garantire soluzioni imminenti.
L’esplorazione spaziale ha fallito nel suo obiettivo fondamentale di condurre alla fondazione di colonie autosufficienti. Gli ostacoli non dipendono dalla capacità di realizzarle, ma dalla natura stessa della specie umana. Eppure, quando sembrerebbe tutto perduto, una soluzione viene a materializzarsi. Arriva da molto lontano, da un altro sistema solare e costringerà le menti migliori a dover fare i conti con la propria morale e a compiere scelte che li costringeranno a valicare i confini dell’etica della scienza.