Dr Nest fra follia e normalità

Data: marzo 11, 2019

In: TOP, TEATRO E DANZA,

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recensione di Tommaso Chimenti

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile, sempre” (Platone)

C’è una sottile linea di demarcazione tra quello che noi consideriamo “normalità” e la follia, tra il lecito e il consentito e la stravaganza, l’eccentricità. Forse il discrimine sta nella sensibilità, nella vulnerabilità di alcuni, nell’approfittarsi di altri in questo mondo che tritura come un caterpillar, che fagocita e sputa coloro dei quali non ha bisogno o che non sono produttivi, che non sono squali, che non hanno denti in questa giungla, in questo zoo dove ci fanno credere che i migliori, i vincenti siano quelli che urlano più forte. Molti non ce la fanno, si chiudono nelle loro paure, nella timidezza, alla ricerca di un posto sicuro, di un angolo riparato, un porto di pace e calore.


La compagnia berlinese Familie Floz, dopo il deragliamento di “Heidi”, torna con “Dr Nest” alla sua poetica fatta di dolcezza, sospensione, magia trasognata a doppio binario, la realtà e la fantasia, la verità e l’immaginario delle sue maschere che ci portano in mondi lontani, infantili, quelli ingenui, puri, semplici, pannosi. E Nest infatti, in tedesco, significa “nido”: ruota tutto attorno alla metafora degli uccelli, quelli che volano o quelli che stanno in gabbia. E il nostro medico, un Dottor Jekyll e Mister Hyde ma senza alcuna rabbia né violenza nei confronti dei suoi simili o del mondo, ha talmente a cuore le persone, i suoi pazienti, ha talmente tanto amore e affetto da entrare in sintonia perfetta, creando un’alchimia compassionevole, senza mai mettersi sul podio, in cattedra, ma alla pari, mettendo sul piatto un’empatia che rincuora e rinsalda la comunità di questo ospedale psichiatrico dove si alternano momenti conviviali e sorrisi ad altri dove si affollano e si addensano i fantasmi del passato, ombre che tornano a violentare le notti e la fantasia, a deturpare la serenità e la tranquillità.


In un gioco di flashback e di dimensioni temporali spostate, il sogno entra nella vita reale così come gli incubi miscelando i piani narrativi. Anche in questo caso le maschere dei Floz (sono in cinque sulla scena ma i personaggi che ruotano vorticosamente sono decisamente di più) hanno spessore e carattere, donano commozione e vicinanza, sono più umane, seppur immobili, fisse e ferme, degli uomini, hanno sfaccettature, seppur inespressive sembrano cambiare espressione e climax, hanno nostalgia e sentimenti, regalano pathos e lacrime: ti verrebbe voglia di abbracciarle. E proprio gli abbracci sono la parte centrale del discorso: i pazienti, l’anziano che si nasconde, quello bisognoso d’affetto e rassicurazioni continue, il gigante simile a Lerch degli Addams, quello che sta nell’armadio tra i cappotti, la cuoca, il timido impaurito virtuoso pianista molto Woody Allen, la vamp con il finto neonato in braccio, forse sono sempre stati trattati da menomati, da disadattati, da diversi da allontanare. Sembra di scorgerci Alda Merini o Dino Campana o ancora Vincent Van Gogh. Con il Dr Nest, il loro nido che accoglie e coccola, si sentono finalmente a casa, ritornano a quella dimensione dimenticata di calore umano.


E’ nello specialista (tra i suoi colleghi c’è una maschera che ci ha ricordato il ministro discotecaro Psi De Michelis) che a poco a poco le certezze vacillano, i muri della normalità crollano o quantomeno si sfaldano, tremolano, si scompigliano. Le pareti, l’arredamento, gli armadi (tanto imponenti quanto flessibili e mobili le splendide scene che sembrano le Torri di Kiefer traballanti) si spostano, come in un terremoto, nelle notti invase dal buio della mente, si affollano di corvi e cattivi pensieri, di formule matematiche e schemi, anatomie e corpi umani, numeri ad ingolfare la lucidità. Le pareti (metaforicamente del cervello) diventano porte che ritornano ad essere muri a occludere la libertà per poi spalancarsi nuovamente ed infine celarla ancora tra speranza e rassegnazione. Le porte che si aprono e si chiudono, con i rumori metallici classici carcerari, quelle sprangate, quelle allucchettate a doppia mandata, riescono a trasmettere il soffocamento, il mistero di queste stanze che si rimpiccioliscono con inquietudine (come Alice nel Paese lisergico delle Meraviglie) e si aprono, a ventaglio, come un soffietto ad indicarci la labilità del pensiero fragile costipato, intimorito.


Nessuno è escluso dalla malattia, fisica o psicologica che sia. Il primario in camice bianco (ci ha ricordato un mix tra la figura di Basaglia e il volto televisivo Massimo Recalcati), di quelli che all’inizio con una coreografia ritmata si trasformano in camicie di forza, comincia a soffrire di sdoppiamento della personalità, si sente perduto, non si ritrova più, non sa più chi è, è spaesato, senza punti di riferimento. La Familie Floz ha il dono unico di entrare sottopelle, di carezzare lo spirito con un teatro artigianale quanto maestoso, superbo e tattile, fatto di emozioni, di sentimenti, di tutto quel non detto poetico che accantoniamo crescendo, quel fuoco che mettiamo sotto la cenere, del fanciullino che dentro di noi è schiacciato dall’adulto: con le loro maschere, con i loro silenzi, ci dicono molto di noi stessi, rompono dolcemente le nostre sovrastrutture.

 

visto a Firenze a marzo 2019 foto di Valeria Tomasulo

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