– di Massimo Giuseppe Bianchi-
Il nostro scrittore musicista ci spiega perché l’ultimo disco del Duca, “Black Star”, è un capolavoro
“E morì Giobbe in età matura e colmo della vita…” Posizionato in uno spazio imprecisato tra una stella e l’altra, sospeso tra Jon Hassel, Brian Ferry e Edgar Varèse, il più bel disco di David Bowie (purtroppo l’ultimo, anche se molti inediti in futuro pioveranno dal cielo) potrebbe essere benissimo una metafora del male che lo ha stroncato.
Questa nuova Stella Nera (il titolo sembra un’epigrafe) brilla non soltanto nell’ universo del Rock, genere che pare essere tornato minorenne, ma rischiara il paesaggio intero della musica odierna. Bowie approda all’ invenzione lirica di un nuovo mondo sensibile e se ne pone al centro. Esagerazioni?
Blackstar impressiona per diversi motivi. Il primo è la consequenzialità di arte e vita. Lo scandaloso ossímoro di una musica tanto vitale concepita da qualcuno che sapeva di fronteggiare un tempo breve. Analogo fu forse il caso di Claude Debussy: colpito da cancro, si buttò a pesce sul suo più bizzarro e impegnativo progetto: sei Sonate cameristiche, ispirate al classicismo della poesia di Verlaine, delle quali tre soltanto poi realizzò,:quelle per flauto, viola e arpa, per violoncello e pianoforte e l’estrema, per violino e pianoforte, a sublimare ed esorcizzare la sofferenza sul piano ideale dell’invenzione. E della ricerca del nuovo.
In Blackstar composto da sette brani, desta stupore l’ardimentosità del linguaggio armonico, organizzato secondo leggi che corrispondono a un idioma ben più complesso di quello usuale del rock, e persino a quello di tanto jazz di tendenza dominante, raffinato – certamente – ma posizionato su coulisse ben consolidate, quindi reazionario. Nel flusso temporale di queste canzoni pare di trovarsi nello spazio siderale, al centro di una tempesta di elettroni… si incrociano scorie della più varia provenienza: pop, rock, punk, jazz, suoni orchestrali, improvvisazione libera e svincolata da obblighi tonali… elementi che definiscono una campitúra singolarissima, dai colori brillanti e misteriosi, quasi un nuovo vedutismo. La musica guarda da ogni lato e non si accontenta di un modo di vedere particolare, anzi vive nella coesistenza e nella compenetrazione di tutte le relazioni che la riguardano: è corpo che dà vita a un’altro corpo, spazio inaudito di corrispondenze.
Il Duca si è circondato per questo lavoro di diversi collaboratori provenienti dal mondo del jazz, tra cui la bravissima band-leader Maria Schneider, il sassofonista Donny McCaslin e, in grande rilievo, il batterista Mark Guiliana, “drummer” dallo stile nervoso e immaginifico, una sorta di contraltare tecnologico e inurbato del compianto Collin Walcott che era invece un poeta dei suoni “naturali”.
Guiliana lo avevo ascoltato in un disco in duo con Brad Mehldau, dove a me era parso, lo confesso, vagamente scocciante per una certa eccitabilità nervosa del porgere ed un’esibizione compiaciuta di quella “matematica” che fatico ad amare nell’arte dei suoni. In Blackstar invece egli regge mirabilmente il discorso sulle sue proprie gambe offrendo in dote il colore precipuo di cui è pervasa questa musica: pensare al testamento di Bowie senza di lui sarebbe come immaginarsi il Tango senza il bandoneòn, e con questo credo di fargli il miglior complimento.
Va detto che questi bravissimi suonatori di jazz vengono chiamati qui a esprimersi ben al di fuori del proprio idioma . Ciò che il leader sembra aver chiesto loro non è la solita ottusa decorazione “jazzata” di un piatto bell’e pronto, come se ne sentono a strafottere in varie operazioni nell’ambito della musica di consumo, ma, al contrario, una destabilizzazione, un boicottaggio per mezzo di interventi improvvisatori. Essi sono stati coinvolti, insomma, per la loro creatività e non per la perizia in una determinata categoria olimpionica.
Il risultato di tanta ricchezza di talenti non offusca la voce del poeta: la fa emergere più chiara, aggiunge nuove corde di recita… Inoltre, sembra che non si tenga alcun conto del mercato ma solo della musica, una bella sensazione. A proposito della voce, la si ode melismatica e spesso ridotta a un filamento argentato; essa però non ha perso nulla della ben nota qualità magnetica e della classe che la contraddistingue.
I bei testi meriterebbero un discorso a parte per certe analogie e una simbologia mortifera non avara di interessanti soluzioni poetiche. Testi e accreditamenti sono stampati su un faticoso ‘nero su nero’ che si stenta un po’ a decifrare… ma è elegante, una dicotomia spesso consustanziale ai frutti del migliore “design“ : ciò che che gli uomini di gusto accettano, e con un plauso. A ogni ascolto, come avviene nella musica d’arte, nuovi particolari vengono alla luce e l’interesse anziché scemare, aumenta.
“E se gli oggetti sfuggissero alla loro natura di muti testimoni, per diventare diversamente protagonisti, soggetti dotati di un proprio pensiero e proprie capacità decisionali?” Questi suoni mi riportano alla memoria le parole di Josè Saramago.
Black Star è un “oggetto-quasi”, opera della rimozione, che, come un razzo lanciato nella notte, offre una speranza e riafferma il valore della creatività in un’epoca caratterizzata dalla svalutazione della vita, dalla perdita di senso. Nel ‘menu’ sovrumano, paradisiaco, offerto ai banchetti che regolarmente si celebrano come è noto nei Campi Elisi del rock, questo disco costituirà d’ora in avanti una portata irrinunciabile. Mi piace ricordarlo così, David Bowie, in questa svagata intervista accanto a Tom Hanks, altra icona positiva e simpatica.
Foto di apetura ABACA
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