C’era una volta il giornalista sportivo…
-di Massimiliano Morelli-
Dimenticate il risultato, fingete noncuranza e soffermatevi ad ascoltare la cronaca di Beppe Barletti, giornalista sportivo che descrive il blitz del Cagliari nella Torino bianconera, roba di oltre mezzo secolo fa.
C’è ricerca di una terminologia semplice e diretta, il cronista non ha bisogno di alzare i toni quando la palla entra in rete, tanto meno quando un portiere si trasforma in saltimbanco e vola da un palo all’altro. Barletti descrive la partita in maniera elegante, seguendo il filo logico del match, inseguendo soprattutto la cronologia delle azioni. I calciatori vengono chiamati col loro nome, nessun soprannome né nomignolo viene affibbiato ai ventidue in campo, non esistono Papu, Conducador né Tucu, per cui Haller resta Haller, Riva è confermato Riva e Anastasi è sempre Anastasi.
E’ cambiato in peggio – e di molto – il modo di descrivere gli avvenimenti sportivi
L’esaltazione del telecronista oggi sfiora assurdità senza eguali, e se davanti al microfono non si esclama un paio di volte “pazzesco!” oppure “ma che gol ha fatto?”, pare che non si riesca a portare la pagnotta a casa.
Qualcuno potrà dire “mutano i tempi”, la qual cosa è tanto scontata e banale quanto vera. Ma questo non significa che si debba imbastardire una professione con la voce stridula per gridare, vagheggiando forse che se un gol viene urlato possa valere il doppio. Pensavo che gli strilloni (quei ragazzini che vendevano il giornale per le strade, nda) fossero finiti nel dimenticatoio alla fine degli anni Cinquanta, invece me li ritrovo davanti impomatati come un “gagà” ma finti come un orologio svizzero costruito in Cina. Il problema non è un problema, ma una somma di problemi.
Editori impuri puntano al fare “tutta tara”, per cui non esiste più controllo su quel che si descrive o si racconta né – cosa peggiore – si ascoltano le reali esigenze del telespettatore. Per quel che concerne il dio pallone a questo si aggiunga l’assurdo bisogno di aver affidato il microfono a ex calciatori, che invece di vivere di luce riflessa, nel dissertare filosofie astratte legate al football hanno cominciato a occupare postazioni nelle quali, generalmente, serve un minimo di preparazione linguistica, non certo solo calcistica. Fa sorridere il fatto che chi ha appeso le scarpette al chiodo, vista la tanta arguzia nel captare l’errore di chicchessia, abbia deciso di puntare il dito contro senza mettersi all’opera. Magari in panchina, per dimostrare che quella capacità di critica e quell’aria strafottente diventa perfezione nel momento gli si affidi una squadra di calcio. Macché, troppo facile fare i bastian contrari cercando l’ago nel pagliaio pure quando quell’ago non c’è.
Scavalco la prima analisi, che per molti apparirà qualunquista, e mi metto a osservare film, commedie e fiction dove viene interpretata la figura del giornalista. Non come ruolo principale, ma come “figurante”. Immaginatevi la classica istantanea del personaggio principale che si ritrova a rispondere alle domande della stampa.
Beh, nessuno si senta offeso se il giornalista viene rappresentato come il più inutile del set, qualsiasi domanda ponga si sente rispondere “no comment”, oppure l’interlocutore se ne va, offeso dall’intralcio di chi, seppure nel contesto di una pellicola, dovrebbe far conoscere al pubblico come sono andati i fatti. Per tacere di pellicole come “Rush” o “Bohemian Rapsody”, nel ambito delle quali le domande dei cronisti sono forzatamente mediocri, mentre esaltano inevitabilmente il personaggio principale della scena. Va tutto bene, le scelte dei registi sono votate all’Oscar, per cui se un redattore deve fare la figura barbina, la faccia pure.
Il problema è che nell’immaginario collettivo, quel cronista imbelle diventa “tutti i giornalisti”, senza lontanamente immaginare i sacrifici che si fanno per portare ogni giorno in redazione un articolo che sia degno di attenzione da parte del “capoccione” di turno. Perché il cronista inviato da qualche parte per raccontare un fatto, dopo aver combattuto con i traffichini dell’informazione, con i nani e le ballerine e con qualche raccomandato che vorrebbe indirizzare la notizia secondo la sua volontà alla fine si trova a scrivere un pezzo trovandosi fra incudine e martello. Col rischio che se quel pezzo infastidisce il “potente” di turno, salti pure il posto di lavoro. Mi fermo qui, consapevole che rimpiangere Beppe Viola non è reato.