-di Andrea Chimento-
Chi l’avrebbe mai detto che il primo film del concorso di Cannes a essere fischiato dalla stampa sarebbe stato quello di Olivier Assayas? Uno dei registi di punta del cinema transalpino contemporaneo bueggiato in patria, all’interno di una kermesse che l’aveva già ospitato altre quattro volte.
E, nonostante il premio per la miglior regia arrivato a sorpresa, tra quelli che non erano sulla Croisette chi lo direbbe che Personal Shopper è stato uno dei titoli più suggestivi e stratificati dell’intera competizione, oltre che uno dei lungometraggi più interessanti nella carriera di Assayas? Pochi, probabilmente, ma la realtà è che il film del regista transalpino è stato messo da parte troppo frettolosamente, con commenti limitati a poche righe e senza essere trattato con la necessaria attenzione.
Al centro c’è la giovane Maureen, interpretata da Kristen Stewart, una “personal shopper” minacciata da una presenza soprannaturale che la perseguita. Potrebbe essere lo spirito del fratello defunto?
Maureen è anche una medium, termine che non a caso è il singolare di media. Già, perché diversi presunti contatti con l’aldilà, la protagonista li ha tramite la tecnologia. Computer, conversazioni su skype, chat sullo smartphone: Assayas riprende le riflessioni portate avanti con Sils Maria e le trasla all’interno di un universo (ancor più?) orrorifico e inquietante, dove un semplice botta e risposta col cellulare può trasformarsi in un momento angoscioso se non si sa chi c’è dall’altra parte. È un vivo o un morto colui con cui sta chattando, (si) chiede Maureen senza ottenere alcuna risposta. Se sia uno psicopatico o un defunto forse non è così importante, poiché la minaccia è la medesima in quel momento, ma la protagonista sembra preferire la seconda ipotesi, speranzosa di poter credere che ci sia qualcosa dopo la morte.
Fin dalle prime battute Maureen, (auto)convinta(si) di essere entrata in contatto col fratello, cerca una dimostrazione concreta della vita dopo la morte, tanto da guardare sciocchi video su bizzarre sedute spiritiche.
È vittima di una profonda insoddisfazione, è alla ricerca di dare un senso alla sua vita, è insicura e bisognosa di conferme: conferme sulla sua identità terrena, che la portano a desiderare di essere un’altra persona e conferme sul fatto che la vita non si esaurisce su questa terra. Se già la prima sequenza ci mostra la sua sagoma confusa tra le ombre della villa, anche il finale non risolve la crisi d’identità, con quello sguardo in macchina che cerca rassicurazione in noi spettatori, incerti a nostra volta nello stabilire se quello che stiamo vedendo è reale o immaginario.
Un’identità frantumata, quindi, come quella di Laura Dern in INLAND EMPIRE o di Naomi Watts in Mulholland Drive, entrambi di David Lynch. Ma se in quel caso lo sdoppiamento era dovuto alla “fabbrica dei sogni”, a quella Hollywood dove entrare comporta necessariamente la perdita del proprio io, nel caso di Assayas tale incertezza è dovuta alla contemporaneità, alla repressione individuale, alla tecnologia che ci comanda, al bisogno di dare un senso ad ogni cosa.
Non mancano i momenti ingenui in Personal Shopper, ma superiori sono gli spunti e le riflessioni che il film riesce a suscitare.
E anche i fischi, a ben guardare, si spengono in fretta: sulla Croisette, come altrove, si tende sempre ad applaudire qualsiasi dramma che si vuole impegnato, ma se dalle stanze buie di una villa spuntano dei fantasmi, tutto, improvvisamente, si fa ridicolo e non più degno d’interesse. Una cecità che spesso non fa cogliere quanto dietro alla patina mostruosa del genere horror si nasconda la nostra realtà. E, allo stesso tempo, ci nascondiamo noi.