– di Daniele Milazzo-
«I mercatanti di Firenze, per onore del Comune, ordinaro col popolo e comune che ssi battesse moneta d’oro in Firenze; e eglino promisono di fornire la moneta d’oro, che in prima battea moneta d’ariento da danari XII l’uno. E allora si cominciò la buona moneta d’oro fine di XXIIII carati, che si chiamano fiorini d’oro, e contavasi l’uno soldi XX; e ciò fu al tempo del detto messere Filippo degli Ugoni di Brescia, del mese di novembre gli anni di Cristo MCCLII. I quali fiorini, gli otto pesavano una oncia, e dall’uno lato era la ‘mpronta del giglio, e dall’altro il san Giovanni»
Questa è la nascita del fiorino d’oro raccontata nella Nova Cronica di Giovanni Villani: ma c’è molto più da dire che in queste poche righe. Innanzitutto, la premessa, che per brevità è stata omessa: nel 1252 Firenze ha appena vinto una serie di guerre contro senesi e pisani, e «colle vittorie dette dinanzi, la cittade montò molto inn istato e in ricchezze e signoria, e in gran tranquillo» secondo le parole dello stesso Villani.
Firenze nel 1252
Ecco la situazione del periodo: l’imperatore Federico II è morto da due anni, e con lui la causa Ghibellina è in declino. Per dirla con Villani, «molto esultò la parte della Chiesa e parte guelfa per tutta Italia per la morte dello ‘mperadore, e la parte d’imperio e ghibellina abassò». I ghibellini sono rappresentati dai figli dell’imperatore, Manfredi e Corrado i quali iniziano a guerreggiare tra loro nel Regno di Napoli. Le città guelfe, come Firenze, ne approfittano per affermare la loro supremazia sugli avversari politici ghibellini; quelli residenti a Firenze sono cacciati dalla città, gli altri affrontati in armi. Il 1252 si apre con la vittoria fiorentina in Mugello sugli Ubaldini, seguito sempre a gennaio dall’assedio alla rocca di Montaia in Valdarno, occupata dai fuorusciti ghibellini. Fiorentini e Lucchesi, alleati, vennero attaccati da Pisani e Senesi, ghibellini, che furono sconfitti. La rocca di Montaia fu distrutta. Mentre i fiorentini attaccarono Pistoia, conquistandola, i Lucchesi, tornando a casa, furono attaccati e sconfitti gravemente da Pisani e Senesi. I fiorentini attaccarono allora i Pisani, sbaragliando il loro esercito e catturando il podestà pisano. Poco tempo dopo i fiorentini presero Figline, occupata dai ghibellini conti Guidi di Poppi, e sconfissero i Senesi, stabilendo un presidio a Montalcino. Nel 1253 i fiorentini si impadronirono anche di Volterra, ultima roccaforte ghibellina, e sconfissero definitivamente i pisani.
Questo excursus, anche se lungo, serve a chiarire una cosa: è nel giro di pochi mesi, in questo anno, che Firenze diventa la città più forte in Toscana. Le rivali Siena e Pisa sono state sconfitte e non hanno possibilità di recuperare terreno e l’alleata Lucca è costretta dalla sua sconfitta contro i pisani a una posizione di secondo piano.
Le numerose vittorie non solo solo politiche e territoriali, ma anche economiche: i prigionieri sono liberati attraverso riscatti, le compagnie commerciali pisane e senesi sono azzoppate, lasciando spazio all’aggressiva attività commerciale e bancaria fiorentina. Ai nobili ghibellini, cacciati di città nel 1251, sono state confiscate tutte le loro ricchezze. Questa maggiore ricchezza improvvisa si riflette nella città: viene creato il secondo ponte sull’Arno, a Santa Trinita, presso le case dei Frescobaldi; l’Arte di Calimala, che è l’associazione che riunisce i mercanti fiorentini, si intreccia strettamente negli interessi con l’Arte della Lana.
Il commercio e i mezzi di scambio
Apriamo un’altra parentesi: tutto il commercio che va oltre i confini delle singole città è, a tutti gli effetti, commercio internazionale. Ogni città che ha una zecca, per privilegi concessi dagli imperatori, batte moneta secondo le proprie specifiche. In tutto il mondo occidentale si coniano soltanto monete di argento, piccole e con quantità di metallo prezioso sempre più scarse. Per le spese quotidiane si usano monetine di rame e stagno con piccole quantità di argento. Come già accennato in un altro articolo, i mercanti dell’epoca calcolano il valore delle monete in base alla percentuale di metallo prezioso contenuta, che può essere comprovata soltanto fondendo le monete stesse.
Chi ha visto e toccato con mano queste monetine rimane sorpreso dalle loro piccole dimensioni, dalla leggerezza e dalla fragilità. I denari d’argento in corso all’epoca pesano in genere da quasi un grammo a poco meno di due e hanno un diametro che varia dai 14 ai 16-17 millimetri. Per fare un paragone, prendete una moneta da un centesimo di euro: il diametro è simile, ma sia il peso che lo spessore di un centesimo è il doppio. Alcune monetine d’argento, ricorda Carlo Cipolla, sono così leggere da galleggiare se messe in un bicchiere d’acqua. Questo sistema monetario è ancora quello stabilito da Carlo Magno secoli prima: da una libbra d’argento si ricavano 240 denari, i quali sono equivalenti a 20 soldi. Oro, niente.
O almeno, non è emesso dalle zecche “occidentali”: l’oro circola, invece, nel mondo arabo, bizantino e siculo-normanno. In Africa del Nord e in Andalusia si battevano in oro il dīnār, il mezzo dīnār e il terzo di dīnār; una moneta di forma e valore analogo è il tarì d’oro, emesso dalle zecche di Amalfi, Brindisi e Messina. Questa moneta di origine araba, di peso e forma relativamente variabile, aveva un contenuto aureo anch’esso variabile a seconda delle emissioni, tanto da essere venduto come una merce, a peso in sacchetti.
Nel 1231 Federico II vuole affermare il fatto che il Sacro Romano Impero ha le sue radici nell’impero romano – e quindi precede in dignità il papato. Per farlo convoca una dieta imperiale che riafferma l’autorità regia sui Comuni, emana le Constitutiones Augustales, in cui, come Giustiniano, raccoglie tutte le leggi esistenti in un unico corpus, e decide di emettere una nuova moneta aurea che lo raffiguri nelle vesti di imperatore romano.
Nasce così l’augustale, una moneta d’oro che nelle forme, dimensioni e peso non ha uguali: con un diametro di circa 2 centimetri e un peso di 5,25 grammi. Il contenuto di oro è generalmente di 20-21 carati, solitamente 20.5, misto a rame e argento. Per fare un paragone, era grande e pesava all’incirca quanto una moneta da 20 centesimi di euro. Il valore è altissimo e supera quello del dīnār in uso nel mondo arabo e nordafricano, mentre l’incisione ideata da Balduino Pagano da Messina richiama le monete d’oro dell’impero romano: da un lato il profilo con corona d’alloro e toga dell’imperatore, attorniato dalla dicitura CAESAR AUG. IMP. ROM. e dall’altra un aquila con le ali spiegate.
Gli augustali riempiono un vuoto nella monetazione contemporanea: hanno un contenuto aureo abbastanza stabile, sono chiaramente riconoscibili rispetto alle monete auree contemporanee e vanno a ruba nel mercato finanziario internazionale. L’augustale «molto ebbe grande corso al suo tempo» come ricorda Giovanni Villani; la sua coniazione, però, termina probabilmente con la morte dell’imperatore nel 1250.
L’idea di coniare una nuova moneta d’oro è stata apprezzata e nell’estate del 1252 la zecca di Genova inizia a coniare il Genovino d’oro, una moneta di oro puro a 24 carati: il peso è di 3.49 grammi, con un diametro di circa 2 cm, praticamente assimilabile a una moneta da 10 centesimi di euro, ma molto più sottile e leggera quanto una monetina da 5 centesimi. È una moneta assimilabile al tarì, pensata per il commercio con il Nordafrica e il sud Italia.
Il fiorino
È poco dopo l’introduzione del genovino che i mercanti fiorentini iniziano a coniare il fiorino. La novità assoluta delle monete genovesi e fiorentine è il titolo di 24 carati: una moneta di oro purissimo, il cui valore dà corpo, per la prima volta, alla libbra (o lira) d’argento del sistema monetario carolingio. Il fiorino è di una moneta di 21 millimetri di diametro, pesante 3,5368 grammi, simile al genovesino; su un lato ha il giglio cittadino che separa la scritta ✠ FLOR ENTIA, sull’altra è rappresentato il patrono della città, San Giovanni Battista, in piedi, con una tunica di panno e un mantello di pelo frangiato ai lati e in basso, con una mano benedicente e l’altra che regge un’asta con una croce greca sulla sommità; la figura divide la scritta • S IOHA NNES • B •. Sia Ricordano Malispini che Giovanni Villani riferiscono che dopo aver sbaragliato i Pisani in val di Serchio, i fiorentini fecero tagliare un pino che lì si trovava e sul ceppo venne coniato il primo fiorino d’oro.
Non sappiamo se l’aneddoto sia vero, ma quello che è sicuro è che i promotori del fiorino furono i mercanti. Una moneta di oro consentiva loro di commerciare con i ricchi mercati dell’Oriente e del nord Africa, e a questo proposito va ricordato che la pace tra Pisa e Firenze del 1253 imponeva ai pisani di usare le unità di peso e misura fiorentine e una determinata lega di moneta, ma soprattutto imponeva «che Fiorentini a perpetuo fossono franchi in Pisa, sanza pagare niente di gabella né di niuno diritto di nulla mercatantia che entrasse o uscisse in Pisa per mare o per terra». A Firenze, invece, quando «fu dato corso al fiorino dell’oro soldi 20, e non era quasi chi il volesse» come ricorda Paolino di Piero nella sua Cronaca. Cerchiamo di spiegarne le ragioni.
Perché rifiutare un fiorino?
Con l’oro che i mercanti “promisono di fornire” al Comune per coniare la nuova moneta si apriva un problema che appare ogni volta che si cerchi di introdurre una nuova valuta: impedire le contraffazioni. Se le monete di argento avevano un valore relativamente basso e – in basse quantità – i cittadini potevano non accorgersi né interessarsi di una variazione percentuale di metallo prezioso nella moneta, la moneta di oro, che ha un valore altissimo, si presta a un rischio di perdita molto più alto in caso dell’accettazione di una moneta contraffatta.
Non c’è soltanto la contraffazione a variare la quantità di metallo prezioso: c’è anche la decisione politica di uno stato di abbassare la percentuale di metallo prezioso in modo da avere monete con un valore titolare superiore a quello intrinseco del metallo: questo permette la coniazione apparentemente dal nulla di altre monete ed è una tecnica di svalutazione ben conosciuta dai tempi dell’impero romano.
Le leggi fiorentine che controllavano la qualità e la purezza del fiorino erano molto severe, così come le pene per la contraffazione erano molto sentite: tanto per fare un esempio, è in profondità nell’Inferno, nel XXX canto, che Dante incontra Mastro Adamo, istigato dai conti Guidi a coniare fiorini falsi con “solo” 21 carati e bruciato vivo per il suo delitto. Ma questo non significa che il Comune avesse una politica monetaria controllata: tutt’altro.
Innanzitutto, va detto che la zecca è del Comune, ma a decidere quanto denaro emettere sono i privati. Questo sistema funzionava grossomodo come un servizio offerto dal Comune ai privati. I mercanti che avevano bisogno di moneta portavano una certa quantità di metallo prezioso alla zecca. Potevano essere altre monete, lingotti, oggetti; gli ufficiali di zecca effettuavano un saggio di fusione per controllare quale fosse la lega e calcolare il contenuto di metallo prezioso, e prima di consegnare le monete coniate sottraevano una certa percentuale per ripagare i costi di fusione e lavorazione. Questa percentuale è il diritto di signoraggio.
Il sistema implicava che lo stato non avesse un reale controllo né della moneta circolante al suo interno né della quantità di moneta emessa, cosa che creava una serie numerosa di problemi. Un paragone è possibile oggi guardando nel nostro portamonete in euro: è abbastanza comune trovare monete tedesche, francesi, austriache, spagnole; in alcuni momenti sembrano – e sono – più numerosi di quelle italiane, mentre è più raro trovare monete belghe, olandesi o portoghesi. Dato che le monete sono accettate comunemente, trovare euro di altri stati europei deriva principalmente da due fattori: la quantità di monete coniate e messe in circolazione e la vicinanza fisica e commerciale tra gli stati. Lo stesso principio si applicava allora: la grande quantità di monete coniate da uno stato ne favoriva la circolazione, così come la vicinanza; monete simili erano accettate e scambiate allo stesso valore, così come noi oggi non facciamo differenze tra una moneta da 2 euro tedesca e una italiana. Ma se gli euro sono emessi secondo regole determinate centralmente, non così le monete dell’epoca: ogni zecca poteva emettere monete di forma e peso differente, con un valore intrinseco differente.
Il grande merito del fiorino – così come del genovino, e, più tardi, del ducato o zecchino veneziano – è la stabilità nel suo contenuto intrinseco di oro e la sua forma regolare e riconoscibile. Dopo i primi dubbi iniziali, i fiorini si accettano rapidamente lungo le linee commerciali: si riconosce che quella moneta ha un valore fisso di riferimento. La stabilità della moneta non deriva soltanto dal Comune che la produce, ma dal commerciante che la usa e da quello che la riceve. Chi accetta una moneta nuova la fa saggiare per verificare se il contenuto corrisponda o meno al valore dichiarato. Essere certi del valore di una merce di scambio facilita enormemente il commercio.
C’è un altro aspetto, spesso ignorato, che ha la sua importanza: in quel momento, per Firenze, coniare una moneta di oro significa affrontare una serie di problemi logistici. Basta farsi due semplici domande: quanti fiorini sono stati coniati? E da dove veniva l’oro? Non c’è, al momento una risposta: abbiamo i dati delle coniazioni soltanto dal 1303 in poi, attraverso il Fiorinaio; per quelli coniati in precedenza ci sono pochissimi campioni esistenti, come quelli del “tesoro di Alberese“, e poche altre monete la cui coniazione è spesso desunta ma non attribuibile con certezza a un anno. Future analisi sulla composizione chimica dei residui di queste monete potrebbero confermare alcune ipotesi sulle dotte del commercio dell’oro nel XII secolo, ma potrebbero anche essere informazioni statisticamente non rilevanti.
Se teniamo presente i pochi minuti necessari per coniare un singolo fiorino, e presumendo che si sia usato un singolo punzone, possiamo immaginare una produzione che può oscillare dai 70 ai 120 fiorini al giorno; su base annuale questo significa che se la zecca ha lavorato in modo continuo, ha avuto la possibilità di coniare fiorini nell’ordine delle decine di migliaia all’anno.
Visto che a procurare il metallo biondo sono i mercanti, questo implica che sono loro ad approvvigionarsi di oro da mandare a Firenze, con tutti i rischi e pericoli conseguenti. Possiamo supporre che una parte iniziale dell’oro sia affluita a Firenze dalle vittorie contro Pisani e Senesi sotto forma di bottino di guerra o riparazioni, ma per mantenere un quantità di circolante nei decenni successivi è lecito pensare che il commercio dell’oro nel Mediterraneo sia aumentato, data la coniazione aurifera anche di Genova e pochi anni più tardi di Venezia. Una simile quantità di oro è arrivata molto probabilmente dal Senegal.
Nei libri di testo europei c’è una scarsa attenzione verso l’Africa, ma è l’impero del Mali ad aprire una serie di vie carovaniere trans-sahariane per l’importazione del sale, assente in molte parti dell’Africa continentale, e l’esportazioni di avorio e oro verso i potentati musulmani in Algeria e Tunisia: È molto probabile che qui i mercanti fiorentini e genovesi si siano riforniti di abbastanza oro in cambio delle loro merci. A proposito di mercanti e fiorini a Tunisi, la citazione iniziale dell’articolo continua con «una bella novelletta», che mostra come si sia diffuso e affermato il fiorino come moneta per gli scambi. Eccola:
«Cominciati i detti nuovi fiorini a spargersi per lo mondo, ne furono portati a Tunisi in Barberìa; e recati dinanzi al re di Tunisi, ch’era valente e savio signore, sì gli piacque molto, e fecene fare saggio, e trovata di fine oro, molto la commendò, e fatta interpetrare a’ suoi interpetri la ‘mpronta e scritta del fiorino, trovò dicea: «Santo Giovanni Batista»; e dal lato del giglio: «Florentia». Veggendo era moneta di Cristiani, mandò per gli mercatanti pisani che allora erano franchi e molto innanzi al re (e eziandio i Fiorentini si spacciavano in Tunisi per Pisani), e domandogli che città era tra’ Cristiani quella Florenza che faceva i detti fiorini. Rispuosono i Pisani dispettosamente e per invidia, dicendo: «Sono nostri Arabi fra terra», che tanto viene a dire come nostri montanari. Rispuose saviamente il re: «Non mi pare moneta d’Arabi; o voi Pisani, quale moneta d’oro è la vostra?». Allora furono confusi e non seppono rispondere. Domandò se tra·lloro era alcuno di Florenza; trovovisi uno mercatante d’Oltrarno ch’avea nome Pera Balducci, discreto e savio. Lo re lo domandò dello stato e essere di Firenze, cui i Pisani faceano loro Arabi; lo quale saviamente rispuose, mostrando la potenzia e la magnificenzia di Fiorenza, e come Pisa a comparazione non era di podere né di gente la metà di Firenze, e che non aveano moneta d’oro, e che il fiorino era guadagnato per gli Fiorentini sopra loro per molte vittorie. Per la qual cagione i detti Pisani furono vergognati, e lo re per cagione del fiorino, e per le parole del nostro savio cittadino, fece franchi i Fiorentini, e che avessono per loro fondaco d’abitazione e chiesa in Tunisi, e privilegiogli come i Pisani. E questo sapemo di vero dal detto Pera, uomo degno di fede, che·cci trovammo co·llui in compagnia all’uficio del priorato».
_____
Fonti:
Francesco Vettori, Il fiorino d’oro antico illustrato, discorso di un accademico etrusco indirizzato al sig. dottore Antonio Francesco Gori, Firenze, Stamperia di S.A.R. per i Tartini e Franchi, 1738.
Paolino di Piero, Cronica di Paolino di Piero Fiorentino dall’anno 1080 al 1305 tolta da un testo a penna in cartapecora della Libreria Magliabechiana, Firenze, Typografia Allegrini, 1770.
Storia fiorentina di Ricordano Malispini fino al 1281 e aggiunte di Giacotto Malispini fino al 1286, Sonzogno, Milano 1876.
Giovanni Villani, Nuova Cronica, edizione Einaudi a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo/Guanda, Parma 1991.
Carlo Cipolla, Il fiorino e il quattrino. La politica monetaria a Firenze nel Trecento, Bologna, Il Mulino, 1982.
Carlo Cipolla, Studi di storia della moneta: i movimenti dei cambi in Italia dal secolo XIII al XV, Università di Pavia, Pavia, 1948.