– di Daniele Milazzo –
«Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatta nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere»
Dotata di fine sarcasmo, colta, infastidita dai pregiudizi: è Christine de Pizan, l’autrice della citazione che avete appena letto. Se credete che la lotta per i diritti delle donne sia qualcosa di recente, che risalga ai movimenti degli anni ’60 e ’70 o alle lotte delle suffragette a cavallo tra otto e novecento, Christine dimostra il contrario. Ma partiamo con ordine.
È il 1365. A Venezia Tommaso, originario di Pizzano, un piccolo castello nel bolognese, ha appena avuto una figlia, Cristina. Tommaso è un professore di medicina e astrologia (esattamente: astrologia, non astronomia) all’Università di Bologna. Quattro anni più tardi è chiamato alla corte del re di Francia, Carlo il saggio, e porta con sé tutta la famiglia.
La piccola Cristina cresce leggendo molti libri; a quindici anni si sposa con Étienne de Castel, segretario del re, di nove anni più grande di lei. Un matrimonio a una età così giovane non deve sorprendere, è un’abitudine dell’epoca che si comprende meglio se si tiene conto che l’età media è molto più bassa e che la mortalità infantile è molto elevata.
Christine diventa madre, si occupa della casa, ha meno tempo di prima per leggere libri. Poi, a venticinque anni, il marito improvvisamente muore in un’epidemia e lei rimane vedova, con i tre figli molto piccoli, una nipote e la madre a carico. Le crolla il mondo addosso: all’improvviso deve occuparsi degli affari di famiglia, dei quali non ha idea. Scopre che il marito non riscuote lo stipendio da anni e per poter mantenere il suo tenore di vita e quel che è rimasto della sua famiglia inizia una lotta estenuante: affronterà quattro lunghe cause in tribunale, problemi di eredità ingarbugliate su alcuni terreni, avvocati esosi, ricorsi e carte bollate nelle aule del Palazzo di Giustizia di Parigi.
È la lotta contro la burocrazia che trasforma Christine de Pizan nella prima femminista.
All’improvviso scopre un mondo diverso da quello in cui è vissuta finora, fatto di funzionari statali che cercano di approfittarsi di lei con proposte di accomodamento della sua situazione che sottintendono altri favori, “amici” del marito che millantano crediti che in realtà sono stati già restituiti, somme di denaro che questi avrebbe dovuto ricevere ma delle quali i creditori fingono di non sapere nulla. Christine racconterà poi l’umiliazione di dover girare per decine di uffici, ognuno dei quali “non è competente” a risolvere il suo problema e che sembra si divertano a farla gironzolare crudelmente tra i corridoi, sola, alla mercé delle battutine e dei commenti degli uomini «pieni di vino e di grasso» che siedono dietro scrivanie lussuose in uffici di rappresentanza. Christine si trova davanti un mondo ostile, unica donna tra tanti maschi, nel quale viene vista dall’alto in basso per il solo fatto di essere una donna. Il fatto che lei rifiuti di risposarsi o, in alternativa, di entrare in convento la rende sospetta di avidità e lussuria, la si considera una poco di buono. Per ottenere le somme di denaro arretrato che lo stato avrebbe dovuto versare al marito sarà impegnata in tribunale per quattordici lunghi anni, e quando alla fine vincerà la causa dovrà attenderne altri sette per ottenere finalmente quel denaro. Sono ventuno anni di attesa.
Christine nel tempo libero torna a leggere e inizia a scrivere in versi, poesie in cui piange il marito scomparso, in cui riversa l’angoscia della solitudine, in cui descrive come il caso possa cambiare la vita all’improvviso. Ha sempre dei contatti con la corte reale; i suoi componimenti sono apprezzati e qualcuno inizia, come è uso dell’epoca, a commissionarle sonetti per occasioni mondane. È una occasione che le cambia la vita: testarda e volitiva, Christine decide di dedicarsi a tempo pieno all’attività della scrittura. Raccoglie le sue poesie e pubblica tra il 1394 e il 1399 Le Cent Ballades, che ha un successo inaspettato: è raro che una donna scriva, e in molti sono curiosi di leggere i suoi versi.
Christine de Pizan è la prima donna che fa della scrittura il suo mestiere dal quale guadagnare e vivere senza dipendere da altri.

Christine de Pizan – Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 1177, fol. 3v
Non c’è ancora la stampa, per cui i libri sono scritti come appunti dagli autori e poi trascritti a mano da copisti e illustrati da miniatori, solitamente donati a personaggi importanti che ricompensano generosamente l’autore. La notizia di un nuovo libro si diffonde tra gli amici del dedicatario e se a qualcuno interessa particolarmente si fa trascrivere e ricopiare il testo, creandone delle copie più o meno ricche rispetto all’originale.
Christine si dedica alla scrittura tutti i giorni, e ci racconta che in sette anni ha riempito più di settanta quaderni di grande formato: ma non si limita a scrivere. Lei organizza all’interno della sua casa una piccola officina, con due copisti, con i quali collabora attivamente: l’analisi dei manoscritti ha reso possibile riconoscere tre mani nella stesura degli originali, di cui due sono di copisti e la terza è della stessa Christine. Un libro, all’epoca, è miniato, cioè decorato sia nelle lettere capitali che decorato negli spazi bianchi a bordo pagina, spesso con motivi floreali. Per Christine lavorano vari miniatori: una di loro, Anastasia, è donna e lei ne va particolarmente fiera, scrivendo che i suoi lavori sono superiori a quelli di tanti altri miniatori maschi. Per ogni libro stabilisce in anticipo il piano editoriale e iconografico, stabilendo di quante pagine dovrà essere, quante illustrazioni fare, cosa devono rappresentare. In ogni libro c’è sempre lei. La vediamo, riconoscibilissima, nello stesso abito blu, con lo stesso copricapo, la stessa sottoveste nera, circondata da libri, nel suo studio.
Il Roman de la Rose

Gli amanti alla fontana di Narciso, miniatura dal Roman de la Rose, circa 1405, The Morgan Library & Museum – MS M.245 fol. 11r
Tra il 1398 e il 1400 l’umanista francese Jean de Montreuil scrive un trattatello (che non è giunto sino a noi) in cui proclama che se per gli italiani il maggior poema è la Commedia di Dante, i francesi non sono da meno in quanto hanno il Roman de la Rose.
Il Roman de la Rose, cioè il romanzo della rosa, è un poema allegorico in versi novenari, iniziato da Guillaume de Lorris nel 1237 con circa 4.000 versi e completato quarant’anni dopo da Jean de Meung con più di altri 18mila versi: un librone di cui sono giunte a noi più di 300 copie manoscritte, effettivamente paragonabile alla Divina Commedia, “ferma” a 14.233 versi. I circoli letterari della corte parigina iniziano a leggere e rileggere il “loro” romanzo, lodandolo come una vetta della letteratura francese e suscitando il nervosismo di Christine: vediamo perché.
Non è azzardato dire che il Roman de la Rose è un pastiche contraddittorio in cui si mischiano citazioni classiche, teologia cristiana e poesia in volgare. Partiamo dal titolo: la “rosa” è un’allusione velata ai genitali femminili e tutto il romanzo racconta un sogno allegorico in cui un giovane chierico si innamora di una rosa che vede rispecchiata in un giardino; per conquistarla e consumare con lei una notte d’amore segue infinite peripezie, fino a quando il Dio dell’Amore e Venere lo aiutano nell’assedio del castello di Gelosia, che la custodisce. Incontrerà Madama Pietà, Bellezza, Bellaccoglienza, Lealtà, e Dolce Sguardo, ma anche Malabocca, Vergogna, Paura, Falsembiante e Forzata Astinenza. Tutto il testo segue un filo conduttore: il matrimonio è la tomba dell’amore, la gelosia è la prima assassina dei sentimenti, gli uomini e le donne sono fatti con i loro corpi da Dio, quindi è giusto che crescano e si moltiplichino senza vergogna e senza lasciarsi vincolare da falsi pudori.
Una premessa necessaria: all’epoca non ci sono problemi a chiamare le cose con il loro nome e all’interno dello stesso testo si prende in giro chi ritiene che “reliquia” sia una bella parola e “coglioni” una brutta: è la Ragione a dire che, dal momento che ogni cosa deve avere una parola per essere indicata, non possono essere le parole a essere brutte in sé, né ci si deve scandalizzare nel chiamare le cose con i loro nomi. Questo serve a comprendere come numerose allusioni sessuali presenti nel testo siano, appunto, allusioni a qualcos’altro, quindi allegorie.
Nel Roman del la Rose ci sono varie sparate apertamente misogine, spesso corredate da citazioni di autori dell’antichità classica per corroborarne le tesi: si legge infatti che «Le donne, in verità sono quasi tutte avide di prendere e ingorde d’arraffare e di divorare» (vv.8281-8283). oppure che «Una donna onesta, per san Dionigi! – e di quelle ce ne sono meno che fenici, come testimonia Valerio […] anche Giovenale lo conferma» (vv. 8687-8689 e 8707). Citazioni misogine si sprecano: viene messo in campo «Lo stesso Virgilio, che molto sapeva della loro natura, testimonia che non ci sarà mai donna tanto stabile da non essere incostante e mutevole» (vv. 16325-16328) e contribuiscono Salomone, Tito Livio, e le Sacre Scritture.
Si leggono rampogne contro le donne che spendono troppo per i vestiti, si truccano e si curano «per vedere, per essere vedute, per stimolare nei compagni il desiderio di giacere con loro» (vv. 9030-9032) spingendosi a dire che «certo, se vogliamo dire la verità, le donne arrecano gran vergogna a Dio, come pazze e forsennate, quando non si considerano paghe della bellezza che Dio dona loro» (vv. 9039-9043), anche se poi ammette che «senza dubbio così è anche per gli uomini» (v.9063).
Alcune delle parole più feroci sono fatte pronunciare al marito geloso che urla contro la moglie «Siete, siete state e sarete tutte puttane, nei fatti o nelle intenzioni!» (vv. 9155-9156) ricordandole che che i suoi amanti «quando li tenete fra le braccia in faccia vi dicono che vi amano, e dietro le spalle vi danno della puttana, e dicono tutto il peggio che viene loro in mente, quando sono fra di loro» (vv. 9238-9242). E poi ancora attacchi generici come «Le donne hanno nel cuore una quantità smisurata di astuzie e malizie» (vv. 18132-18133), oppure «Signori cari, guardatevi dalle donne, se vi premono i vostri corpi e le vostre anime» (vv. 16577-16578).
La prima querelle letteraria della storia

Christine de Pizan nel suo studio, miniatura del Maestro della Città delle Dame dal Libro della Regina, 1410, Manoscritto Harley MS 443, British Library
Era solo questione di tempo prima che Christine facesse sentire la sua voce sull’argomento. Non solo polemizza, ma fa quello che sa fare meglio: scrive. Tra 1401 e 1402 compone Le Livre des epistres sus le Rommant de la Rose, in cui raccoglie le lettere scambiate tra lei e Gontier Col, uomo di corte e umanista francese, che difende il testo del Roman. È il primo dibattito letterario sull’estetica di un’opera in lingua francese.
La querelle si allarga: isolato dai suoi colleghi, prende le parti di Christine il teologo Jean de Gerson, cancelliere dell’Università di Parigi, il quale però nel suo Traité contre le Roman de la Rose del maggio 1402 sembra preoccupato più che altro di denunciare l’immoralità del Roman. A supporto e difesa di Gontier Col arriva il fratello Pierre Col, canonico della cattedrale di Parigi, con una Réponse dell’ottobre 1402 in cui cerca di demolire le tesi di Christine e Jean chiedendo di non prendere alla lettera il contenuto, e che se in più parti era apertamente misogino, in altre invece prendeva la difesa delle donne.
A difesa del Roman de la Rose si può dire, appunto, che è contraddittorio: si possono leggere passi, come «servi e onora tutte le donne; devi darti una gran pena per servirle. Se senti che qualche maldicente va sparlando delle donne biasimalo e digli di tacere» (vv. 2115-2119), e dopo le urla del marito geloso l’Amico ammonisce il sognatore che «questo folle villano geloso, la cui carne possa essere abbandonata ai lupi che tanto si gonfia di gelosia, […] si erige a signore di sua moglie, che d’altra parte non deve essere la sua signora, ma la sua compagna alla pari, come impone la legge che li unisce, e lui deve essere il suo compagno, senza farsene signore e padrone; quando costui le appronta tali tormenti e non la tratta da sua pari, ma la fa invece vivere in tale stato increscioso, credete che egli non le dispiaccia e che l’amore fra loro non venga a mancare?» (vv. 9421-9435). Se queste ultime parole sembrano in favore di un amore più libero tra uomo e donna, svincolato dai legami matrimoniali, l’impressione è esatta: la conclusione di questo lungo ragionamento è che «chi vuole essere nelle grazie di una donna la lasci sempre libera» (vv.9717-9718).
La critica di Christine, però, è radicale: per lei sono proprio le forme del romanzo cortese a essere sbagliate, perché si basano su una misoginia radicata nella mentalità degli uomini, che non perde occasione di ripetersi, anche senza pensarci, nella letteratura come nella vita di tutti i giorni. Nell’Epistre au dieu d’Amours, ovvero la Lettera al dio d’Amore, Christine denuncia la misoginia, mette alla berlina gli uomini infedeli e ingannatori e si lancia in una difesa appassionata delle donne: il testo ha così tanto successo che già pochi anni dopo la pubblicazione il testo è tradotto e copiato in inglese e circola oltremanica. Nel 1401 pubblica i Dit de la Rose, in cui mette in scena una riunione presso il duca d’Orleans in cui Christine, autonominatasi campionessa della causa delle donne, descrive la creazione da parte dell’allegoria della Lealtà dell’Ordine della Rosa, un ipotetico ordine cavalleresco per ricompensare gli uomini che difendono l’onore delle donne nei fatti.
Tra il 1401 e il 1404 pubblica il Dit de la Poissy, i Trois Jugemens, il Debat de deux amans, i Dit de la pastoure e il Duc des vrais amans, in cui fa raccontare sia a uomini che a donne una serie di vicende amorose, con i loro punti di vista lasciati spesso aperti, al giudizio del lettore, ma con un filo comune per tutti: non può esserci amore tra uomo e donna senza rispetto reciproco, e un uomo intelligente non dovrebbe permettersi di trattare male la propria donna, ma dovrebbe metterla a parte dei suoi affari, dei suoi problemi, per avere un aiuto nelle loro soluzioni. Altrimenti, conclude Christine, guardate quello che è successo a me: alla morte di mio marito non sapevo nulla dei suoi affari.
Grande successo ha anche un libro di un genere allora in voga, gli insegnamenti morali: negli Enseignements moraux, o Les notables moraulx de Christine de Pizan à son filz del 1402 Christine ammonisce che le donne non vanno ingannate, né si deve cercare di sedurle e poi andare in giro a vantarsene con gli amici, come fanno tanti uomini; al figlio ricorda che se sposerà una donna saggia dovrà avere fiducia di lei nella gestione degli affari e della casa, perché una moglie deve essere la padrona con lui e non la serva alle sue dipendenze. Se invece sposerà una donna stupida, allarga le braccia Christine, allora pazienza, non c’è nulla da fare; ma, aggiunge, chi è causa del suo male non cerchi di addossare agli altri colpe che sono solo sue.
La Città delle Dame
Nell’inverno tra 1404 e 1405 Christine scrive il Livre de la Cité des Dames. Il libro comincia con Christine che è nel suo studio; è stanca, ha passato una lunga giornata, e decide di leggere un po’ per rilassarsi prima di andare a dormire. Prende il primo libro che trova e inizia a leggerlo. Si tratta delle Lamentazioni di Matheolus, un libriccino comico in cui un uomo si lamenta della sua vita coniugale; ne legge qualche pagina, poi la madre la avvisa che la cena è pronta e lei lascia il libro nello studio. La mattina dopo lo ritrova sul leggio e continua a leggerlo. Il Matheolus del libro fa una rassegna de luoghi comuni per cui le mogli sono una rovina, è meglio rimanere scapoli a vita e divertirsi che incatenarsi a una moglie con la quale si passa tutto il giorno a litigare, e così via. Qui Christine si lascia andare alla citazione che apre l’articolo: «Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatta nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere». E continua chiedendosi come sia possibile che ci siano in circolazione dei libri come quello che stava leggendo, o che ci siano degli uomini che credono davvero a queste baggianate; come mai tutti dicono che la donna è debole, come mai tutti ripetono stupidaggini sulle donne senza chiedersi cosa stanno dicendo.

Christine de Pizan incontra Ragione, Rettitudne e Giustizia, iniziando a costruire la Città, miniatura del Maestro della Città delle Dame dal Libro della Regina, 1410, Manoscritto Harley MS 4431, British Library
Christine, lo si è capito, vive in un mondo dove vanno di moda le allegorie: al termine di questo lamento appaiono nella sua stanza Ragione, Rettitudine e Giustizia – guarda caso, tre donne – che dicono a Christine che è nel giusto, sarebbe ora di finirla con i pregiudizi, e per iniziare a cambiare le cose è necessario costruire una città fortificata, la Città delle Dame, dove difendere le donne e spiegare finalmente agli uomini chi siano le loro compagne, le loro mogli, le loro madri e sorelle. Ci si ispira chiaramente a libri che conoscono tutti i suoi contemporanei come la Città di Dio di Sant’Agostino, in cui il dottore della chiesa costruisce una città immaginaria, la Gerusalemme Celeste, per difendere il cristianesimo dagli attacchi dei pagani. Altra fonte di ispirazione, anche se in tono polemico, è il De mulieribus claris di Giovanni Boccaccio, in cui si passano in rassegna le vite di 106 donne famose, reali, mitiche o leggendarie. Christine innalza le mura della sua città e la popola soltanto di donne: incontra e fa parlare tutte le donne della Bibbia, della mitologia greca e romana, raccontando aneddoti e dimostrando, caso per caso, che le donne non sono inferiori in nulla agli uomini, anzi, quando ne hanno le possibilità, riescono a eccellere in tutti i campi. Perché le cose cambino nel mondo, però, Christine racconta che non è necessario soltanto lottare contro i pregiudizi degli uomini, ma anche contro l’apatia delle donne stesse, prigioniere delle convenzioni sociali. Le donne devono impegnarsi a cambiare il mondo perché è nella loro natura: il progresso deriva da loro, e porta in testimone Minerva e Aracne che hanno inventato la tessitura e la tintura della lana, Semiramide che fece erigere Babilonia, riempiendola di palazzi e giardini pensili, le Amazzoni, Didone che fondò Cartagine e fu tradita da Enea, Nicostrata che inventò l’alfabeto latino e tante altre ancora. C’è anche la nobile romana Lucrezia, che si suicidò dopo essere stata stuprata da Tarquinio il superbo, e fu strumentale alla cacciata dei Tarquini e alla fondazione della Repubblica di Roma: la sua presenza serve a Christine per affrontare il tema della violenza sessuale, inorridendo al pensiero che ci siano uomini che possano fare questo e addirittura sostenere che “in fondo se l’è cercata” e proponendo una legge «giusta e santa» che condanni a morte gli stupratori. Regine, poetesse, indovine, scienziate, martiri e sante sono passate in rassegna come esempi delle capacità delle donne di eccellere in ogni campo possibile.
Come appendice alla Città delle Dame nel 1405 Christine scrive anche il Livre des trois vertus à l’enseignement des dames, dedicato a Margherita di Borgogna, in cui dà consigli a tutte le categorie di donne della sua società, dalla regina alla prostituta. Le esorta a dimostrare al mondo che ogni donna può farsi valere e deve far rispettare i propri diritti: la regina deve sapere che dovrà poter governare il regno in assenza del marito, per cui se ne deve occupare e preoccupare; la moglie di un barone, di un castellano, di un nobile o un militare deve saper destreggiarsi insieme al marito nel mare della politica, dell’amministrazione del patrimonio, del mestiere delle armi, mentre la moglie di un mercante deve conoscere gli affari del marito e dimostrare di saper badare alla bottega. All’ultimo gradino della scala sociale c’è la prostituta, alla quale Christine de Pizan consiglia di cercare un’occupazione di qualsiasi tipo – l’assistenza ai malati, la lavandaia – pur di evitare di finire come tante, costrette alla fine della loro gioventù a mendicare un pezzo di pane. Anche questo libro ha successo e nell’ottobre del 1405 Christine scrive una lettera pubblica alla regina di Francia, Isabella di Baviera, in cui esorta le donne a far sentire la loro voce in politica, soprattutto in questo momento in cui il re, Carlo VI, è debilitato da crisi di schizofrenia, e la tensione politica tra il partito del duca d’Orleans e quello di Borgogna è vicina alla guerra civile.
Gli ultimi anni di Christine
La situazione politica francese è grave. Nel 1407 il duca d’Orleans è assassinato, divampa la guerra civile, gli inglesi sbarcano a Calais con Enrico V che pretende il trono. Christine scrive altri libri su soggetti politici: su commissione del duca di Borgogna, che vuole presentarsi come successore politico del vecchio re Carlo il Saggio, scrive il Livre des faits et bonnes moeurs du sage roi Charles V in cui intervista i vecchi funzionari reali, ricorda il marito che era segretario del re e il padre che ne era il medico. La guerra divampa e nel 1410 Christine scrive il Fait d’armes et de chevalerie, un libro in cui racconta diritti e doveri di un signore in tempo di guerra e come vanno condotte le operazioni militari. Christine scrive ancora i Lamenti sui mali della Francia nel 1410, schierandosi con il partito francese, e nel 1414 dedica al delfino Luigi il Libro della Pace, in cui incita il giovane principe a essere prudente e a costruire una pace duratura.
È però tardi: nel 1415 ad Azincourt gli inglesi sbaragliano la cavalleria francese, e Enrico V d’Inghilterra occupa Parigi e buona parte della Francia facendosi coronare re. Quando nel 1418 inglesi e borgognoni occupano Parigi ammazzando gli oppositori politici Christine, schierata con il partito del Delfino, ha il buon senso di fuggire. Ha già cinquant’anni e si ritira in un convento, una scelta comune per le persone di rango che invecchiavano.
Christine non scrive più libri per undici anni. Poi, nel 1429, in tutta la Francia si diffonde una notizia: una donna, o meglio una ragazzina di diciassette anni guida l’esercito francese e sbaraglia i nemici, togliendo l’assedio a Orleans. È Giovanna d’Arco. La gioia di Christine è duplice: la Francia si salverà, e si salverà grazie a una donna, una pucelle, la pulzella, alla faccia di tutti i misogini e a dimostrazione che le donne possono fare tutto quello che vogliono. Christine prende di nuovo in mano la penna e pubblica in pochi mesi Le Ditié de Jehanne d’Arc, il poema di Giovanna d’Arco, che inizia così:
«Io, Christine, che ho pianto per undici anni chiusa in abbazia, ora per la prima volta rido, rido di gioia».
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Per la stesura di questo articolo ringrazio vivamente la filologa Roberta Manetti, che ha curato l’edizione critica del Romanzo della Rosa, per le informazioni e chiarimenti su quello che è uno dei testi più complessi del suo periodo.
Per approfondire l’argomento:
Christine de Pizan, La città delle dame, a cura di Patrizia Caraffi. 1997, Roma, Carocci Editore
Opere e manoscritti originali di Christine de Pizan presso la Bibliothéque National de France
Guillaume de Lorris e Jean de Meun, Il Romanzo della Rosa, a cura di Roberta Manetti e Silvio Melani, 2015, Alessandria, Edizioni dall’Orso
Jenny Redfern, “Christine de Pisan and The Treasure of the City of Ladies: A Medieval Rhetorician and Her Rhetoric” in Lunsford, Andrea A, ed. Reclaiming Rhetorica: Women and in the Rhetorical Tradition, 1995, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press
Un video per approfondire la storia di Christine de Pizan:
[…] Christine de Pizan – Bibliothèque nationale de France, Département des manuscrits, Français 1177, fol. 3v. Fonte […]