di Maurizio Melani
Il nostro omaggio al primo capolavoro del rock moderno, nato per caso in uno di quegli anni spartiacque per la storia della musica: il 1965.
Inghilterra, primi anni ’60. I giovani che imbracciavano la chitarra elettrica per tentare l’avventura musicale avevano come riferimento i miti provenienti dal dorato mondo del rock’n’roll-blues d’oltreoceano. A tirare le fila del movimento – anche quello di bacino – vi era lui, il re Elvis the Pelvis, ma anche Chuck Berry – il più “coverato” di tutti – Carl Perkins e, per i più colti, il povero Buddy Holly. Tutto scorreva lento e ordinato, con le cicatrici della guerra non del tutto rimarginate, quando scoppiò improvviso a Liverpool il movimento musicale del beat che tentava di modernizzare il rock’n’roll classico, scoprendo più ampie linee melodiche. Ne furono ovviamente protagonisti i Beatles i quali, sommersi di elogi e di pubblico, cercarono di vendere subito quell’interessante mix fatto di new music e immagine da bravi ragazzi.
Mick Jagger e John Lennon
Avvenne che la Decca, uno dei due colossi musicali britannici dell’epoca, rifiutò i futuri Fab 4 ritenendoli non troppo innovativi. John, Paul, George e Ringo non si persero d’animo. Ringraziarono e passarono tra le braccia di mamma Emi che nel 1963 pubblicò ben due Lp con i quali, grazie a quelle facce che tanto piacevano a ragazzine e benpensanti, incassò un bel mucchio di sterline. Il signor Decca, che ancora si stava stracciando le vesti, mangiando le mani e guardandosi con disprezzo allo specchio, aveva bisogno di un complesso che provasse a rappresentare l’esatta alternativa ai Beatles. Fu così che, grazie alla sapiente mano del manager Andrew “Loog” Oldham, mise subito sotto contratto un quintetto londinese che si esibiva tra energici riff di chitarra, una voce stridula e soprattutto abiti paramilitari con capelli mal tagliati. Nel 1964 venne lanciato sul mercato un LP ricco di cover di brani rock-blues, suonati da una band dalla faccia sporca: ladies and gentlemen, The Rolling Stones.
Non avevano il nome di animali ma di persone dedite al “nomadismo”, non cantavano canzoni yè-yè, non piacevano alle mamme e soprattutto non facevano nulla per desiderarlo: per dirla con De Andrè, andavano volutamente “in direzione ostinata e contraria”. E anche la campagna mediatica per il lancio del disco sparava slogan controversi tipo: ”Se i Beatles sono i ragazzi che amate, gli Stones sono quelli che dovete odiare”. Oppure sulla copertina di “Melody Maker”: “Lascereste uscire vostra sorella con uno dei Rolling Stones?”. Seguivano foto imbronciate e in stile segnaletica. Una formula rivelatasi però vincente e ripresa dieci anni dopo da Malcolm McLaren per creare il marchio “brutto, sporco e cattivo” dei Sex Pistols.
Quel 1964 fu un anno di passaggio. E’ vero, i Fab 4 continuavano a sfornare singoli e Lp di successo (altri due!), uniti a tour americani ed europei; esordivano gli Animals di Eric Burdon – con quella romantica e ipnotica The house of the rising sun – e i Kinks che con You really got me e All day and all of the night offrivano riff di chitarra più marcatamente hard. Si deve però attendere il 1965 perché scoppi la prima piccola rivoluzione musicale: quella “British invasion” che andò alla conquista della comatosa scena americana, tenuta in vita solo dalla svolta elettrica di Bob Dylan.
I Beatles – sempre loro – pubblicarono Rubber soul modernizzando testi e musiche e gli Who di Pete Townsend e Roger Daltrey irruppero con un originale rock graffiante, urlando lo slogan della nuova “generation” pre ‘68: “I want to die before get old”. Mancava il tassello definitivo della rivoluzione giovanile: quello che, insieme al disagio interiore, puntasse il dito contro la società dei consumi e gli obsoleti valori. Nel caldo giugno di quello stesso anno uscì Satisfaction – a esser pignoli “Satisfaction (I can’t get no)” – hit assolutamente deflagrante perché aveva tutto per essere il primo vero brano rock: dieci libbre di rabbia, critica sociale q.b., paganesimo sessuale a go go. Di lì a poco, sempre con gli Stones, sarebbero arrivate le esaltazioni di droga e occultismo. Nasceva la faccia sporca del rock. Anzi: nasceva il rock, il rock come mai nessuno l’aveva sentito!
Satisfaction era la prima canzone con espliciti richiami sessuali. Mick Jagger urlava non solo che non ne poteva più di una società consumista e benpensante, dalla faccia pulita e sorridente, ma con l’indole di fotterti con prodotti di ogni tipo; a lui interessava rompere gli schemi, fumarsi una sigaretta come i ribelli del cinema, divertirsi e soprattutto “farsi qualche ragazza”. Ma non potrà togliersi nemmeno quella soddisfazione e ciò non farà altro che aumentare la sua rabbia interiore. Chi poteva rifiutare uno come Mick? Chi poteva dargli un “due di picche”, dicendogli “baby, ripassa la prossima settimana”? Una ragazza con un “losing streak”, ovvero mestruazioni: “disturbo” che tutt’oggi si cita con pudore, rifugiandosi in un generico “le mie cose”.
Come tutti i più grandi successi, anche Satisfaction nacque per caso e nessuno della band, soprattutto i Glimmer twins Jagger e Richards, pensava a un’eco di quelle dimensioni. Il riff iniziale, come per una volontà superiore, apparve in sogno a Keith Richards in una stanza d’albergo. Lui si svegliò di soprassalto, lo canticchiò, ritrovò gli accordi, infine decise di registrarlo. Poi si riaddormentò di botto. La mattina seguente pigiò il tasto rewind sul registratore: il nastro gracchiava quaranta minuti di alcolica russata, anticipata da 120 secondi di chitarra acustica. Keith memorizzò le note e corse in studio a lavorarci su con un nuovo effetto ideato dalla Gibson, il distorsore fuzz tone. Il risultato però non lo convinse affatto. Così come non convinse Mick che, addirittura, decise di opporsi mettendo ai voti l’uscita di quel brano sul mercato. Grazie nuovamente a un intervento divino (o luciferino) i due furono sconfessati: persero loro e vinse il rock.
Il brano ottenne un successo tremendo. La canzone, pubblicata come singolo per la prima volta negli Stati Uniti nel giugno del ’65, portò la band in vetta alla Billboard Hot 100 per quattro settimane, alla UK Singles Chart per due settimane, senza contare la leadership nei Paesi Bassi, in Austria, in Germania. La strada era segnata e gli Stones l’avevano tracciata prima di altri. Di lì a poco sarebbe scoppiato anche il ’68 e le cinque “pietre rotolanti” non si tirarono indietro, anzi sguazzarono nella “controcultura” tirando fuori, proprio in quell’anno, un altro capolavoro ad hoc: Symphaty for the devil.
Una canzone sulla cresta dell’onda per cinquant’anni non può che aver ricevuto riconoscimenti e copiature (o storpiature) di ogni tipo. Molti artisti si sono prodotti in cover più o meno riuscite, da Aretha Franklin fino a Britney Spears. A noi piace però mostrarvi il remake più originale di tutti: talmente originale che la band autrice chiese prima un confronto preventivo con gli Stones. Permesso accordato con entusiasmo. Per il cinquantennale di Satisfaction, noi votiamo la versione new wave dei Devo. Qual è invece la cover che voi preferite?