-di Tommaso Chimenti-
Se costruisci castelli in aria, di solito, si sgonfiano e svaniscono alle prime luci del giorno, evaporano come sogni troppo belli per essere veri. Ma ci sono castelli solidi che la storia ha costruito e che, miracolosamente, rimangono ancora intatti, a baluardo, per mostrarci che il tempo scalfisce ma non polverizza. Dopotutto Alvito fa rima con invito. E certamente è l’ospitalità uno dei punti cardini del “Festival Castellinaria” dove non mancano le salite, le curve, i gradini per arrampicarsi, arroccarsi su impervi sentieri fino a raggiungere, appunto, il Castello del XIII secolo. Se non hai la macchina ad Alvito sei finito. La logistica, causa la morfologia intrinsecamente disagevole del territorio, è la parte più ostica e complicata perché i luoghi sono scenografici e panoramici, i boschi avvolgono e cullano e abbracciano ma le distanze si fanno corpose se decidi di cimentarti con le suole da buon pellegrino. Castellinaria, ideato e messo in atto, al suo secondo anno di vita, da un manipolo di volenterosi ragazzi giovanissimi quasi tutti under 25 (dal 3 a 10 agosto, a cura della Compagnia Habitas: Aida, Livia, Chiara, Niccolò), è un piccolo festival curioso ma già nel panorama nazionale riesce a dire la propria. Nato tra questi rovi, tra queste rupi, tra queste valli verdi e selvagge. Per la natura intorno, spigolosa, complicata, ricorda il borghetto di Calcata (comunque non molto distante da queste zone; sempre di Lazio si parla) dove Leviedelfool (Perinelli e Rotolo) firmava la loro rassegna estiva, oggi, purtroppo, defunta. Simili a queste latitudini mi sono venuti alla mente altri festival frequentati in questi anni: Granara in quello spicchio di terra che tocca Emilia, Toscana e Liguria, oppure il Periferico nell’hinterland modenese, o ancora il Pergine Festival in Trentino. Cose divertenti che non farò mai più, scriveva Foster Wallace riferendosi alle crociere sui transatlantici.
L’impegno c’è, è palpabile e visibile e lo sforzo è concreto da parte di tutta la popolazione che si è stretta e ha abbracciato e condiviso il progetto innovativo per queste zone. Il famoso “territorio“, che molti citano tanto per infarcire discorsi istituzionali, qui è una presenza, una certezza che accompagna gli appuntamenti e le date: i ristoranti dell’area a turno invitano gli ospiti del festival, si dorme in case private messe a disposizione dagli stessi abitanti. Un bel tentativo di effettiva condivisione di sguardi e visioni, di paesaggi e dialoghi. Il titolo dell’edizione 2019 è “Segnali di fumo” che significa voglia di comunicare, di arrivare con il proprio messaggio anche lontano, ma anche di dire al mondo ci siamo, eccoci, siamo qua sull’eremo, non ci siamo emarginati, non siamo eremiti, stiamo soltanto prendendo la rincorsa. Castellinaria è vissuto come emanazione dell’intorno e non caduto dall’alto all’“insaputa” dei cittadini e imposto loro.
Gli stessi che, con fiducia, hanno affollato (l’entrata è ad offerta libera a cappello) lo spettacolo (possiamo chiamarlo così?) “Viziami” sul quale avremmo preferito sorvolare. Quello che più ha colpito sono state le decine di persone che hanno abbandonato la platea (al Castello Cantelmo le sedie sono poste quasi dentro una conca-scatola magica che ricorda vagamente il Giardino dei Cactus di Cesar Manrique a Lanzarote), delusi, affranti, certamente allontanati da una messinscena disturbante e presuntuosa dove da un lato un professore spiegava alto, pomposo, infiocchettante, ricamato di origami, noiosamente infarcito come in una lezione ampollosa e pesante, tutt’altro che fluida, e dall’altra un esagitato ed esagerato performer urlava le sue ragioni, diavolesco, eccentrico, in succinti abiti femminili. Però, e il dettaglio non è affatto marginale ma risaltava agli occhi, se vuoi fare il performer maledetto e zolfino, caustico e acido, non puoi presentarti sulla scena con i fogli, non puoi avere tra te e la platea, in mezza alla tua concitazione sudata ed egocentrica di corse e rotolamenti, queste carte da dattilografa che creano frattura, frizione, barriera, scoglio, frontiera insormontabile. L’empatia non è scattata e più ci si addentrava nella drammaturgia (le due parti erano lontanissime e scollate) più ci si infilava in un tunnel buio dal quale sarebbe stato impossibile uscirne se non con la fuga, guadagnando l’uscita anticipata. Una sonora stecca. Tredici le donne tratteggiate, tra aulicità e banalità, tredici lettere tra il fine dicitore e l’alterato ginnasta, una distanza siderale li allontanava senza possibilità di congiunzione e vicinanza. Sconclusionato, vaneggiante, senza baricentro, mal progettato e peggio realizzato, scoordinato, disegnato caoticamente: un concentrato e un vademecum su cosa non fare quando si sale su un palco, un riassunto di quello che il pubblico non si merita.
Per le future edizioni, speriamo che piece così barcollanti, claudicanti e incerte non riescano a trovare spazio, ne va della credibilità di un intero progetto artistico. Sul territorio manca il teatro, soprattutto nella sua versione invernale, manca la formazione teatrale, l’abitudine alla visione della scena, dell’ascolto della parola detta da un palco. Paradossalmente, a posteriori, il tentativo di Castellinaria potrebbe essere stato proprio far vedere e mostrare chiaramente e in maniera così lampante e disarmante l’abisso tra questo tipo di approccio e la cosiddetta “nuova drammaturgia” che il collettivo che gestisce il festival ha scelto e deciso di programmare.
Tutt’altre forme e contenuti abbiamo, fortunatamente, rilevato in “Pezzi” di Rueda Teatro, scritto da Laura Nardinocchi, testo vincitore dell’ultimo “Roma Fringe”: tre figure femminili che si accatastano su un passato nostalgico, un presente insoddisfacente costruito su bugie e un futuro traballante per tutte. Sono una madre ansiogena che cerca di mutare la realtà per abbellirla e renderla quantomeno decente o sopportabile, una figlia con qualche ritardo mentale, una seconda figlia che subisce le altre due donne, schiacciata dalla madre che la “usa” per migliorare con la finzione, l’inganno a fin di bene e la manipolazione del quotidiano, la vita già claustrofobica e chiusa e senza sbocchi della figlia problematica. I pezzi sono loro, difficili da incastrare, i pezzi sono quelli che compongono l’albero di una sorta di Natale in Casa Cupiello 2.0 in versione femminile, i pezzi sono quelli nei quali si sono disintegrate dopo la morte del padre, evocato con le cravatte (che sanno di laccio, di legami ma anche di suicidio). Tutto spunta e sbuca da queste scatole che formano torri e si spostano modificando questo interno familiare misero e stagnante, stantio e ammuffito, disagiato e polveroso dove sembra che tutto remi per non essere cambiato in una sospensione d’impossibilità che uccide giorno per giorno perché toglie la voglia di lottare, di vivere, di esserci.
Sono tre pezzi immersi nella loro solitudine; la madre non conosce altro modo per reagire alla vita se non camuffandola artificiosamente, la ragazza malata non ha i mezzi per combattere le difficoltà e si rifugia in un passato da bambina dove tutto era bello, possibile, casalingo, spensierato, la terza vorrebbe fuggire, andare via da quella casa che la sta risucchiando, la sta svuotando e prosciugando ma il senso di colpa la tiene lì ancorata. Ognuna è insoddisfatta della propria vita e imputa responsabilità alle altre, il loro panorama inizia e finisce lì e si sente tutta, da tagliare a fette (da fare a pezzi, appunto) questa cappa che le fa annegare, che le spinge sotto il peso soffocandole. Le bugie non alleggeriscono le giornate grigie anzi alimentano e aumentano la distanza tra il loro reale e quello che avrebbero potuto essere se la figura paterna fosse stata lì al loro fianco. Anche l’abete natalizio è uno scheletro, e non l’essenza, del Natale, è rinsecchito e arido, prosciugato, morto. Non c’è felicità, quale allegria, chiederebbe Lucio Dalla. Al di là di qualche ingenuità, soprattutto registica, di qualche prevedibilità testuale, di qualche commozione sottolineata e “telefonata”, “Pezzi” regge, è compatto e non si sfalda. Intanto il cielo è stellato sopra di noi. Domattina ad Avito le cicale, imperterrite e incuranti del teatro, riprenderanno a frinire.
Foto di Simone Galli