-di Stefano Fabbri- A Mosca fa freddo. Dalle immagini tv si vedono le chiazze di neve per strada. Ma quel bianco, a ben guardare seppure da lontano, sembra la punta di un iceberg. La parte non emersa è gigantesca e ancora non visibile, sebbene la dimensione della protesta per l’arresto e la condanna di Alexey Navalny sia già enorme: migliaia di arresti e una sfida aperta non solo agli oppositori ma anche al senso comune di giustizia che alberga da questo lato dell’Europa, dove il sole tramonta.
Il sostegno al “Mandela russo”
La cronaca è cronaca: il tentativo di avvelenamento del maggiore oppositore di Vladimir Putin, il suo ricovero tardivo in Germania, la guarigione ed il rientro in patria con previsto contorno di arresto e processo. Ma quel che colpisce è senza dubbio la dimensione del sostegno che Navalny ha ottenuto, ben oltre il risultato elettorale che lo aveva inchiodato al 27% nelle elezioni del 2013: dopo non è stato più ammesso alle competizioni elettorali. Il campione anti-corruzione, il “Mandela russo”, come è stato soprannominato, può oggi contare su uno scenario imprevisto anche per l’oligarchia post-comunista che decide i destini della nazione più grande del mondo in cui vivono 147 milioni di persone.
E lo scenario è quello di un dissenso non più limitato a conventicole o piccoli circoli intellettuali che oggi irrompe sulla scena mondiale attraverso i tg di tutto il globo.
L’eredità sovietica tra nazionalismo e post-statalismo
Inutile cercare ragioni o torti. Il dato incontrovertibile è che, forse per la prima volta dai tempi della guerra fredda, il governo russo deve quotidianamente intervenire non solo per reprimere le manifestazioni di piazza a sostegno di Navalny ma anche per chiosare, precisare, smentire le informazioni, spesso in uno stile brusco e sprezzante che pare un’eredità sovietica che ha ritrovato il proprio diritto di cittadinanza in un assetto politico che di essa ha mantenuto, in un misto di nazionalismo e di post-statalismo, il senso malinteso della difesa patriottica.
Un atteggiamento che si incrocia con le mille contraddizioni che segnano il rapporto tra l’Europa dell’Ovest e quella che una volta era separata dalla cortina di ferro.
L’udienza, le tensioni, gli interessi e i diritti
I diplomatici occidentali, non tutti, sono presenti alle udienze del processo a Navalny, ma i loro stessi Paesi corteggiano la Russia per sfamare con lo Sputnik la penuria di vaccini che le stesse aziende occidentali centellinano al vecchio continente. Oppure le tensioni scaturite dai manganelli della polizia moscovita vengono utilizzate per regolare i conti dell’economia strategica di un Paese europeo nei confronti di un altro, come l’invito francese alla Germania perché rinunci, nel nome del rispetto dei diritti civili (e magari anche nel nome degli interessi di altri fornitori di energia) al gasdotto Nord Stream 2.
L’occidente e l’Europa assistono così, sgomitandosi l’un l’altro in tribuna, ad uno dei momenti più drammatici della vita politica dell’ (ex?) nemico orientale, magari baloccandosi con il pericoloso e bilama strumento della minaccia di sanzioni.
Il ruolo degli intellettuali
Una bella differenza con quanto accaduto in altri frangenti, negli anni 70 e 80 del secolo scorso, quando la dissidenza dell’allora Unione sovietica era discussa, anche con profonde lacerazioni, e poi condannata da una comunità di intellettuali che oggi sembra aver posato gli occhi su un altrove lontano dagli arresti di Mosca. Certo, l’Urss di 40 o 50 anni fa è diversa dalla Russia di oggi e Aleksandr Solgenitsin non è Navalny, ma il tema rimane tutto intero ancora oggi. Per denunciare gli abusi non ci sono più i samizdat fatti uscire rocambolescamente oltrecortina, ma immagini nude e crude come quelle girate nelle piazze di Mosca, nelle aule di tribunale o nella casa della moglie di Navalny, poi arrestata.
Il diritto al dissenso
Può l’occidente, la cultura politica e giuridica nata dalla Rivoluzione francese rinunciare a combattere le storture dell’altrettanto importante Rivoluzione d’ottobre che sembrano rimaste in vita anche dopo il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione controllata dell’Urss? Può permettersi di non far pesare, come accadde allora per l’intellettuale e scrittore Premio Nobel, il proprio ruolo che gli consentì di salvarsi dal gulag seppure al prezzo dell’esilio? Oggi per Navalny e per i suoi sostenitori non c’è in palio solo la salvezza personale ma l’affermazione del diritto al dissenso, senza che questo abbia per forza il significato di minare alle radici la struttura statale russa o di finire per dare ragione ai grand commis moscoviti che si allarmano per una pretesa ingerenza negli affari interni.
C’è un comun denominatore del consesso civile e politico contemporaneo che obbliga gli intellettuali, la politica e forse anche l’economia ad esigerne il rispetto, senza guardare alle proprie convenienze. Indipendentemente da torti o ragioni che motivino il dissenso. Certo, la partita è importante anche per la Russia. Una volta finita la staffetta tra Medvedev e Putin il prossimo leader russo sarà, probabilmente e solo per una questione anagrafica, non più un uomo o una donna cresciuti nel Pcus.
Per questo la nazione più grande del mondo dovrà essere pronta.



Stefano Fabbri, fiorentino, è stato giornalista dell’ANSA per oltre 30 anni, dieci dei quali trascorsi come caporedattore nella sede centrale dell’Agenzia, a Roma, per poi guidarne la redazione toscana. Arrivato al giornalismo dopo essere stato, nel 1977, tra i fondatori della storica emittente “Controradio”, adesso continua a collaborare con l’ANSA e suoi contributi di analisi sono ospitati da quotidiani, radio, tv e siti web.