-di Simone Soranna-
Iniziamo dalla fine. Durante la cerimonia di premiazione, nessuno si sarebbe mai aspettato un simile risultato: Palma d’Oro a I, Daniel Blake del veterano Ken Loach (classe 1936) e Gran Premio della Giuria a Juste la fin du monde, di Xavier Dolan (classe 1989). Il primo premio del Festival è stato quindi assegnato al regista più anziano della competizione, mentre il secondo a quello più giovane.
Ora, lungi dal commentare criticamente il palmares e le scelte adottate dalla giuria capitana da George Miller (non l’abbiamo mai fatto in questi spazi anche perché ciò che davvero è più importante e stimolante da analizzare rimane l’oggetto filmico più che il premio vinto), è curioso notare come il divario di età tra i due autori celebrati sulla Croisette sia spia di una tendenza significativa appurata durante l’intera rassegna. Sembra infatti che questa sessantanovesima edizione del Festival di Cannes sia stata contraddistinta dalla voglia di tramandare un sapere, di aprire le porte del mondo attraverso una finestra (leggi lo schermo cinematografico) per accompagnare gli spettatori all’interno di universi paralleli mediati tramite il racconto di una favola.
Nei panni di nonni saggi e sapienti quali sono, gli autori delle opere presentate all’interno della selezione ufficiale hanno preso per mano gli spettatori, esattamente come si fa con i propri nipoti, per narrare loro con delle fiabe (più o meno cupe, più o meno veritiere, più o meno favolistiche) stimolanti e coinvolgenti, capaci di trasportare l’attenzione di molti in luoghi e ambienti lontani e sconosciuti.
Cafè Society, di Woody Allen, film che ha avuto il piacere e il privilegio di inaugurare questa edizione del Festival, ha infatti catapultato le platee di accreditati nella Hollywood degli anni Trenta, tra party privati, abiti vintage e soprattutto una fotografia cinematografica (curata dall’italiano Vittorio Storaro) perfettamente calzante e “altra” rispetto a quanto siamo soliti osservare al cinema (soprattutto alleniano). Stesso discorso vale per il solido Ma Loute, racconto gotico firmato da Bruno Dumont, il quale ambienta un piccolo mistero in un luogo decisamente assurdo e per nulla convenzionale, con personaggi buffi, grotteschi e scanzonati capaci di restituire un’ottima radiografia del presente storico odierno senza tuttavia imitarlo in alcun dettaglio.
Se il discorso può essere attuato solo in parte con i drammi storici quali Mal de pierres e Mademoiselle (rispettivamente firmati da Nicole Garcia e Park Chan-Wook), progetti meno lontani nel tempo e nello spazio come Bacalaureat di Cristian Mungiu, American Honey di Andrea Arnold, il già citato I, Daniel Blake, Ma’Rosa di Brillante Mendoza o Sieranevada di Crisi Puiu riescono a immergere del tutto il pubblico in una realtà complessa, stratificata e decisamente lontana da qualsiasi vissuto.
Stessa logica produttiva riscontrabile alla base di altri due titoli molti attesi come Il GGG – Il grande gigante gentile e The Neon Demon. Nel primo, Steven Spielberg si è riconfermato un narratore nato, che usa il linguaggio cinematografico proprio come se fosse una grammatica con cui poter concretamente parlare al pubblico per raccontare una storia (e se poi questa storia è uno dei romanzi per bambini più famosi del mondo, allora è facile intuire quanto il discorso assume un ulteriore significato). Il secondo invece è il folle progetto del danese Nicolas Winding Refn che, senza scendere minimamente a patti con lo spettatore, cala la macchina da presa nel delirante e horrorifico mondo della moda, decisamente lontano e opposto da come lo immaginiamo ma proprio per questo motivo così crudo e verosimile.
Insomma, Cannes 69 è stato un Festival da favola, in cui il cinema contemporaneo ha dimostrato nuovamente le sua passione per il racconto e l’evasione, pur non dimenticandosi che le fiabe, così come durante l’infanzia, anche e soprattutto in età adulta servono a educare e a scuotere le coscienze. I grandi, ammoniscono i piccini. Dolan, sei avvisato.