Cannes 68: uno sguardo d’insieme

-di Simone Soranna-

A mente fredda e con una visione d’insieme di quella che è stata l’edizione appena trascorsa del Festival di Cannes, è curioso notare come il cinema contemporaneo abbia voglia di avventurarsi lontano da casa, di viaggiare (forse) per scappare. Eppure, l’unica soluzione possible (sembrano suggerirci gli autori della kermesse) è guardare dentro noi stessi.

La Palma d'Oro cortesia Cannes Film Festival

La Palma d’Oro
cortesia Cannes Film Festival

 

Il Festival di Cannes 2015 è giunto al termine. Arrivederci sole, arrivederci palme, arrivederci red carpet, arrivederci film, arrivederci glamour, arrivederci tutto. Sarebbe tuttavia sbagliato liquidare l’edizione senza provare ad avvalorarla con uno sguardo d’insieme a posteriori che renda conto dei titoli nella loro totalità (lasciando perdere il palmarès).

Cannes 68 aveva fatto parlare molto di sé già a cominciare dalla presentazione del suo programma. In Italia ci siamo tutti esaltati per la presenza di tre film nostrani nel concorso principale ed è passato inosservato il fatto che i nostri cugini francesi avessero replicato con ben cinque pellicole nella medesima sezione. Grandi nomi attesi (Haynes, Hsiao-Hsien, Villeneuve, Lanthimos), molti amici della manifestazione (Sorrentino, Moretti e Garrone in primis, ma anche Kore-Eda, Van Sant e Audiard), poche sorprese e pochi sconosciuti (László Nemes). Cannes sembra chiamare a raccolta gli autori più importanti del pianeta per lasciar loro spazio quasi come fosse in corso una collezione di figurine (celo, celo, manca). Stesso discorso dicasi per il fuori concorso dove la Pixar e Woody Allen hanno avuto modo di mettersi in mostra.

Il regista László Nemes

Il regista László Nemes

A conti fatti però è paradossale notare come la qualità cinematografica dei film sia sembrata assolutamente meno brillante e lodevole delle sue premesse. I lavori hanno convinto poco (The Sea of Trees, di Gus Van Sant,  fischiatissimo) e spesso sono stati etichettati come “il peggior titolo” della carriera del regista in questione. Più passavano i giorni e più circolava l’idea di una kermesse stanca e conservatrice, che fosse mirata maggiormente alla costruzione di una casta di autori da coccolare e venerare per il loro grande passato invece che per il discutibile presente. Interessante notare come, a tal proposito, uno dei migliori film mostrati (a detta di molti) sia stato proprio Saul Fia, opera prima di un regista ungherese sconosciuto come László Nemes. Il giovane che spicca ed eccelle in mezzo a tanta esperienza stanca e opaca. Ecco dunque cosa è sembrato Cannes 68, un albergo di lusso in cui tante star hanno trascorso un periodo di riposo e divertimento grazie al loro passato glorioso (Youth?).

Ad ogni modo, nulla di nuovo. La manifestazione francese si è comportata esattamente come si comporta sempre. Questa è la cifra stilistica che la caratterizza. L’unica differenza rispetto alle altre edizioni rimane il fatto che altrove i grandi nomi non delusero (pensiamo alla rassegna di due anni fa in cui il concorso propose La grande bellezza, La vita di Adele, Il passato, Solo Dio perdona, Solo gli amanti sopravvivono, Venere in pelliccia, eccetera).

Michael Caine in Youth, di Paolo Sorrentino

Michael Caine in Youth, di Paolo Sorrentino

Qualità o meno, attesa e/o delusione, rimane il fatto che di film ne abbiamo visti molti. Dunque è possibile e doveroso provare a riflettere su dove il cinema si stia spingendo ultimamente e sulla particolare visione che (bene o male) accomuna il mondo della settima arte in questo preciso momento storico. Due dati saltano subito all’occhio a conti fatti: l’internazionalità delle produzioni e un costante e comune avvicinamento alla morte (tematicamente parlando). L’Europa (ma non solo) sembra sentire il bisogno di parlare inglese. Pensiamo al film di Sorrentino e a quello di Garrone (troppo facile nascondersi con scuse improbabili dietro la voglia e la necessità di produzioni internazionali) ma anche all’esordio americano di Lanthimos e del norvegese Trier. Persino Chronic (vincitore del premio alla miglior sceneggiatura) è diretto da un autore messicano trapiantatosi negli States (Michel Franco) così come, seppur vicino di casa e non nuovo a queste produzioni, il canadese Villenueve. Insomma, pare proprio che il momento del grande salto sia giunto. Stufi di rimanere nel proprio ovile e forti dell’ampio consenso di critica e pubblico accumulato lungo le loro carriere, i cineasti hanno voglia di rischiare e lanciarsi in avventure dal più grande respiro. Un passo giustificato e usuale che però stimola curiosità per l’alto numero di adesioni riscontrate in questa particolare edizione.

Un cinema che (concretamente parlando) va altrove, viaggia. Eppure lo fa raccontando storie intime e quotidiane, impregnate di un alone lugubre e drammatico legato al tema del lutto e della lontananza (coincidenze?). Chronic ha al centro un infermiere incaricato di accompagnare i pazienti più gravi lungo i loro ultimi giorni di vita, Mia Madre (di Nanni Moretti) racconta la morte di una donna anziana, Youth segue le riflessioni di due pensionati rallentati dall’età, The Sea of Trees è un viaggio in un mondo sconosciuto mirato a colmare il vuoto di un lutto attraverso un atto di suicidio, sempre dal suicidio prende il via Valley of Love (di Guillaume Nicloux) dove due genitori si ritrovano lontani da casa (ancora), Mountains May Depart (di Jia Zhang-Ke) dedica l’ultimo atto del suo mosaico a una famiglia disgregata e radicata in una società e un Paese che non gli appartengono, Marguerite & Julien (diretto da Valérie Donzelli) racconta una fuga d’amore dagli esiti tragici, eccetera.

Registi emigranti che sperano e sognano raccontando un contesto tutt’altro che allegro. Un alone macabro che però non punta al compianto ma al rimboccarsi le maniche. Infatti la soluzione e la speranza trapelano (quasi) sempre. Sorrentino si (e ci) rifugia nell’arte, Garrone dipinge altri mondi fiabeschi, Zhang-Ke loda ed esalta il valore delle emozioni intrinseche, Kore-Eda i rapporti umani, Moretti, più “semplicemente”, l’amore del ricordo. In tempi di frenesia, di crisi, in tempi in cui bisogna reinventarsi e abbandonare i propri lidi per provare a sognare qualcosa di più, di meglio, ecco dove il cinema sembra suggerirci di ripararci: dentro noi stessi e nelle nostre relazioni con gli altri.

Guardare dentro. Questo potrebbe essere lo slogan riassuntivo dell’edizione del 2015. Esattamente ciò che vuole trasmettere (e che mette in atto attraverso una mirabolante e psicanalitica avventura) la Pixar con il suo Inside Out (fuori concorso), decisamente il migliore film visto quest’anno in rassegna. Coincidenze?

la foto di apertura è di Reuters

 

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