Bobo Rondelli: la voce degli ultimi

 

Il grande pubblico lo vedrà duettare sul palcoscenico dell’Ariston con Irene Grandi. Rigorosamente fuori concorso come ti aspetti da un artista fuori dagli schemi della tempra di Bobo Rondelli. Che si è raccontato per noi a Gianmarco Caselli

di Gianmarco Caselli 

 Bobo Rondelli, cantautore dalle mille sfaccettature, ora anche scrittore con un’autobiografia edita da Mondadori, “Cos’hai da guardare.” Per quanto fuori dal mainstream da alcuni anni dopo il successo nazionale con il gruppo “Ottavo Padiglione” e con la hit “Ho picchiato la testa” il cui video a inizio anni ’90 impazzava in tutte le case, Rondelli è una delle personalità musicali più da tenere d’occhio della penisola. Pochi, come prima di lui Fabrizio De André e Piero Ciampi, hanno saputo dare voce agli ultimi, quelli che nessuno considera se non scarti della società.

Proprio quest’anno Rondelli tornerà nelle televisioni di tanti italiani partecipando, non come concorrente, al Festival di Sanremo dove duetterà con Irene Grandi: la coppia di musicisti, entrambi toscani, interpreterà “La musica è finita” di Ornella Vanoni.

Rondelli, in parte per volontà propria fuori da certe dinamiche commerciali, è veramente una sorta di bohémien, con una vita estrema sotto molti punti di vista, e basta entrare in casa sua per rendersene conto. A differenza di altri artisti musicali o non, non gioca sopra il suo essere “maledetto” per poi rinnegare pubblicamente certe scelte, è veramente così, e preferisce stare fra le persone comuni piuttosto che nei salotti buoni.

E con coraggio, dopo l’esperienza iniziale con gli “Ottavo padiglione” musicalmente divertenti e anche demenziali pur non tralasciando trasparire vene melanconiche, a un certo punto della sua carriera solista, Bobo vira per una direzione più intima, più raccolta e riflessiva sulla vita di tutti noi, degli “ultimi” in particolare, con la benedizione e allo stesso tempo maledizione di avere tutta una serie di fan che ancora aspettano che lui li faccia ridere sul palco.

Eppure Rondelli è quello a cui, dopo averti fatto impazzire dalle risate, tremano le mani dall’emozione quando legge un estratto relativo alla morte della madre nella sua autobiografia. Un’autobiografia che ha come titolo l’ultima frase che gli ha detto il padre, facendo fra l’altro venire in mente “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo.

Quelli di Bobo sono una serie di gioielli musicali a cui, pur essendoci vastissime schiere di fan osannanti soprattutto in Toscana, varie circostanze legate al business del mercato non hanno reso giustizia come avrebbero dovuto: perché se ci potesse essere un erede di De André, forse quello potrebbe essere proprio Rondelli, e per averne la certezza basterebbe ascoltare un solo album, “Per amor del cielo.”

 Lo abbiamo intervistato durante una serata passata fra casa sua e bar e osterie di Livorno, un bicchiere di vino dopo l’altro.

Molti testi delle tue musiche danno voce agli ultimi. E’ una cosa “pensata” o un’esigenza?

Non lo so di preciso. Forse è una cosa che appartiene a tutti noi, è una parte dei mostri interiori; poi anche nei romanzi, se non c’è un “ultimo”, cosa lo leggi a fare quel libro? Però sicuramente lo faccio anche per dar voce a chi non ce l’ha, a fare luce su storie da far conoscere, per denunciare il degrado umano.

 “Vesti la giubba”, la celebre aria tratta da “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo forse è la musica che ti si addice di più. Quante volte ti sei sentito come Canio, costretto a far ridere sul palco quando avevi la morte dentro?

La mia “Vesti la giubba” è “Gigi balla”. Capita molto spesso che, quando salgo sul palco, mi senta come su un palchibolo: mi trovo a volte in situazioni in cui la gente non è venuta per me, non mi conosce. Devo dire però che all’età che ho, questo non è più un problema. Prima lo era, ed era sicuramente un problema legato anche alla timidezza, alla vergogna. Con gli anni ti giudichi meglio, ti importa meno del giudizio degli altri.

Cosa è che fa ridere?

Secondo me c’è una regola del clown che dice: “cosa fa ridere me, fa ridere anche gli altri”. Si raggiunge dopo vari spettacoli che definirei veri e propri ring. Quando vai sul palco e il tuo mood non è proprio quello giusto, sei osservato, quindi entra in te una sorta di “puttana”: diventi una puttana che vende l’anima senza baciare la bocca a nessuno.

 Hai collaborato con moltissimi artisti, un cd addirittura con Stefano Bollani. C’è stata una collaborazione che più di altre ha cambiato il tuo modo di fare musica?

Forse la collaborazione più importante è stata quella con Filippo Gatti: con lui è nato il disco probabilmente più riuscito, “Per amor del cielo”. Quando un produttore è una buona guida al tuo ascolto, su come canti, su come suoni, il prodotto non può che migliorare. Anche con Andrea Appino degli Zen Circus ho avuto una buona collaborazione: con lui ho trovato sonorità più moderne, anche elettroniche.

Bobo scrive poesie all’osteria

 Nonostante lo stile sia ovviamente il tuo, nei tuoi dischi hai effettivamente sempre cercato di trovare sonorità diverse.

Mi sono sempre disposto a vestire le mie canzoni con abiti ogni volta diversi.

Quante volte ti sei sentito non compreso dal pubblico? Oppure, c’è una tua canzone che credi che non sia stata recepita per quello che è?

Difficile dirlo, molto difficile. Essendo un cantautore di nicchia, è difficile capire cosa il pubblico recepisce e come lo recepisce. Non lo so.

La vita da artista, nell’Italia di questi ultimi anni in particolar modo, non è facile: tu vivi il tuo essere musicista come una salvezza o come una dannazione?

Una salvezza che richiede dannazione. È una salvezza contro la dannazione del quotidiano.

Un dipinto estemporaneo di Bobo su una delle pareti dell’osteria in cui abbiamo realizzato parte dell’intervista

 Tutti conoscono la tua coerenza e i tuoi ideali. Abbiamo artisti, per non parlare dei politici, che sbandierano grandi ideali ma poi spesso entrano in contrasto con questi senza farsene un problema. Tu hai mai rimpianto di avere perso una buona occasione nel nome di ciò in cui credi? 

A dire la verità risponderei no perché alla fine sono figlio di un muratore e ho l’idea di vivere mese per mese, se non giorno per giorno. Quando guadagni di quel che fai è un grande lusso. Non essere famoso è un prezzo pesante, certamente. Più sei famoso, più ti pagano. Tuttavia paghi anche il fatto di essere famoso. A me piace molto essere sul palco e, quando esco, essere uno come tanti.

Vuoi dire che la vita da artista secondo te influisce anche sul modo di considerare il guadagno scaturito dal proprio mestiere?

Sì: ti trovi i soldi in tasca e li spendi, acquisisci proprio una mentalità gitana. Almeno, così è per me, per come la vivo io. Mi sento come un artigiano che mette su baracca e burattini, fa quello che gli viene chiesto di fare e viene pagato per il suo lavoro. Quando ho pagato le bollette e ho mangiato, sto bene. La vita da artista, comunque, rispetto ad altri lavori, è più dispendiosa perché la testa va da un’altra parte rispetto alle cose pratiche.

Come descriveresti il lavoro che fai?

Di lavoro faccio l’emozionatore, sono drogato di emozioni.

Ma sei anche uno spacciatore, di emozioni.

E sono anche lo spacciatore, sì. Ma allo stesso tempo devo fare uso di emozioni, è come una droga.

 

Bobo Rondelli intervistato da Gianmarco Caselli e Marco Bachi (Bandabardò) al Capannori Underground Festival 2019 riceve il Premio Lucca Underground Festival per la diffusione della cultura underground:

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