-di Andrea Chimento-
È proprio così, sono già passati cinquant’anni dall’uscita di Blow-up, uno dei titoli più importanti della carriera di Michelangelo Antonioni, che vide per la prima volta il buio della sala quando venne lanciato sul mercato americano nel dicembre del 1966.
Antonioni era reduce dalla tetralogia dell’incomunicabilità – composta da L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Il deserto rosso (1964) – ed era per lui il momento di fare il grande salto: fu la sua prima produzione internazionale, a cui seguirono Zabriskie Point (1970) e Professione: reporter (1975).
Più ambizioso che mai, il regista ferrarese classe 1912 prese ispirazione dal racconto Le bave del diavolo dell’argentino Julio Cortázar e scrisse la sceneggiatura insieme a Tonino Guerra e a Edward Bond.
Antonioni lesse il racconto mentre stava dirigendo Il deserto rosso e ne catturò unicamente gli elementi essenziali, trasformandone l’essenza.
Dopo una visita sul set di Modesty Blaise, che l’amata Monica Vitti stava girando con Joseph Losey, Antonioni iniziò a maturare l’idea di girare a Londra (il racconto originale era ambientato a Parigi) anche per timore che la censura italiana dell’epoca potesse bloccare il film, visti i problemi già avuti dal regista per L’avventura.
E fu proprio l’internazionalità della pellicola a salvarlo: quando il film esce in Italia nel 1967 viene subito sequestrato, ma torna nelle sale dopo pochi giorni grazie ai successi ottenuti all’estero, tra i quali svetta la Palma d’oro vinta al Festival di Cannes e le candidature all’Oscar per la miglior regia e la miglior sceneggiatura.
Come cast il regista scelse di riunire alcuni dei volti simbolo dell’epoca: da David Hemmings a Vanessa Redgrave, passando per la celebre modella Veruschka.
Tra le presenze tipiche della swinging London dell’epoca si segnalano anche gli Yardbirds, con Jimmy Page e Jeff Beck, che suonano di fronte al protagonista.
In quest’atmosfera pop e libertina Antonioni descrive l’universo ambiguo dei fotografi e delle modelle, concentrandosi poi su un misterioso delitto.
Considerato da molti uno dei lungometraggi metafisici per eccellenza, Blow-up è un film sull’indecifrabilità del reale, sulla percezione distorta che l’obbiettivo (fotografico o cinematografico che sia) può dare alla verità.
Al centro c’è la vicenda di un fotografo professionista che scatta l’istantanea di una coppia per poi scoprire, una volta sviluppato il negativo, che dietro la serenità apparente dell’immagine si potrebbe nascondere un terribile delitto.
L’arte deve arrendersi alla sua finzione, cogliere la realtà è impossibile per il mezzo “oggettivo” della fotografia: sono solo alcuni spunti di un lungometraggio che ancora oggi affascina e fa riflettere, senza aver perso un briciolo del suo magnetismo (anche nei momenti più eroticamente allusivi, come la seduta fotografica con la modella Veruschka).
Sono passati cinquant’anni ma ancora si rimane esterrefatti di fronte alla potenza del celebre epilogo, la partita a tennis più famosa della storia del cinema. In un match tra mimi senza palle né racchette, Hemmings inizia a sentire il rumore della palla e a seguire la sua traiettoria, forse inesistente o forse semplicemente impossibile da vedere tramite il mezzo cinematografico.
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