-di Nadia Pastorcich –
Impegno sociale e passione per la pasticceria ereditata dai genitori. Andrea Bosca oltre al cinema e alla televisione segue con entusiasmo Every Child Is My Child Onlus di cui è socio fondatore. Domenica 16 settembre al termine dello spettacolo al Salone degli Incanti di Trieste, che l’ha visto partecipe insieme ad altri attori amici e sostenitori del progetto dedicato ai bambini siriani, si è svolta all’Hotel Savoia Excelsior Palace la Charity Dinner. Dopo il grande successo ottenuto, Every Child Is My Child ha in programma ulteriori eventi per il pubblico.
Andrea, come e quando nasce l’avventura di Every Child Is My Child?
Nasce l’anno scorso, dopo un attacco chimico ad un ospedale in Siria, le cui immagini sono state trasmesse in televisione e sono state viste da tutti noi, lasciandoci di stucco. Questa sporchissima guerra che non finisce mai e che è iniziata molto tempo prima che nascesse Every Child Is My Child, ci ha fatto riflettere. Anna Foglietta ha subito creato una chat su WhatsApp dove invitava a dire basta, a lanciare un messaggio: “Basta alla guerra in Siria”; a questo messaggio hanno aderito tantissimi amici di Anna e tanti se ne sono aggiunti poi. È partita una vera e propria onda virale che l’anno scorso ha dato inizio a tutto quanto. La vicinanza ai bambini colpiti dalla guerra ci univa molto e allora Anna ha proposto di fare qualcosa tutti insieme. Era la prima volta che tanti individualisti, come possono essere gli artisti in questo momento storico, si sono uniti trovando un tratto comune nel bambino. Abbiamo così deciso di darci questo nome Every Child Is My Child che ha inventato Barbarossa ma che intercettava un sentire condiviso. Abbiamo pensato di provare noi ad organizzare qualcosa dando innanzitutto un contributo non solo di immagine o di messaggio – che è importante – ma di fare noi le cose in primis. Questa è stata una vera e propria scommessa personale. All’inizio sembrava una cosa impossibile ma abbiamo subito deciso di crearla almeno virtualmente e poi pian piano strutturarla in una Onlus. Tutto ciò ci ha uniti; per esempio io non mi ero mai interfacciato con Fabrizio Frizzi, anche se lo conoscevo. Lo ricordo con amore, era una persona meravigliosa, di un’umiltà assoluta. Anche lui ci ha subito voluto dare il suo contributo. Ognuno di noi fa la sua parte: c’è chi si occupa dell’organizzazione, chi dei messaggi, chi inventa eventi…
C’è un bel lavoro di squadra…
Sì, è un lavoro di squadra, soprattutto con la gente, con il nostro pubblico, con le persone a cui vogliamo bene e che ci vogliono bene, che ci hanno seguito e che ci danno la possibilità di far sentire la nostra voce e che vengono agli eventi, come quello a Trieste. Senza il nostro pubblico nulla avrebbe significato. Abbiamo voluto rendere concreto il nostro messaggio, non volevamo che restasse solo sui social, abbiamo così deciso di vagliare diversi progetti; alla fine abbiamo trovato quello della Plaster School di Insieme si può fare Onlus. Si tratta di una scuola fra la Turchia e la Siria che sta a Reyhanli, dove io sono stato e dove noi diamo un futuro, una possibilità a questi bambini. Ovviamente è una plaster, un cerotto…
Però è un buon inizio!
Esatto! È proprio questo l’inizio di Every Child Is My Child che nasce in risposta a quelle immagini terribili cercando di dire: “Forse possiamo fare qualcosa tutti insieme”. Questo è il secondo anno di Every Child; in futuro ci muoveremo anche verso realtà italiane.
Cosa ha visto quando è stato alla Plaster School?
Un popolo con una voglia di vivere pazzesca, ma un poco in ginocchio: i siriani erano come noi, solo che da un giorno all’altro si sono visti togliere tutto. Questa cosa ti strappa il cuore perché vedi delle persone che sono molto simili a te e che non possono credere di essere tornate ad una situazione così difficile, così debole. È un popolo che per mille motivi di carattere mondiale è stato martoriato e ciò continua. Bisogna aiutarli a far sì che non perdano la loro cultura, le loro bontà di fondo. Questi bambini hanno visto solo la guerra, se non hanno una scuola, dei valori, qualcuno che insegni loro e li accolga togliendoli dalla strada, come potranno dimenticare tutta questa violenza? C’è il rischio che la ripetano. La mia esperienza lì è stata bellissima: io e Lorenzo Locati di Insieme si può fare siamo andati nei campi dove abbiamo dato un aiuto in cibo a chi ci permetteva di togliere i loro figli dalla strada e portarli a scuola. Dicevamo sempre: “Studio, sono una risorsa”. Volevamo far capire alle famiglie che questi bambini hanno diritto alla normalità e a studiare. Un giorno saranno anche un’entrata per la famiglia, perché studiando potranno portare a casa un pezzo di pane.
Forse loro, che vivono in una situazione sfortunata, possono insegnarci che non bisogna dare per scontato nulla…
Nulla, sì! Da questa esperienza sono tornato carico di vita, di voglia di fare e se avevo voglia di lamentarmi, era da mordersi la lingua. La cosa bella è anche l’entusiasmo che rimane: sia Lorenzo Locati sia i miei colleghi di Every Child, quando organizzano gli eventi, tornano tutti un po’ più vivi, con una voglia di stare insieme che secondo me è un grande elemento di Every Child. Questo fa molto bene agli artisti e alle cose che fanno e credo che per principio faccia bene un po’ a tutti: cercare di capire che non siamo soli al mondo e che c’è una rete di persone che vuole occuparsi di queste cose. Tutto ciò è molto gioioso, è il motivo per cui nel libro (Every Child Is My Child. Storie vere e magiche di piccola, grande felicità) si parla di felicità. Noi volevamo raccontare, anche se la vita non è semplice e ha colpito duramente queste persone, cose felici. Loro hanno un estremo bisogno di normalità.
Lei nel suo racconto, contenuto nel libro di Every Child, riesce a riportare quello stupore che hanno i bambini nel vedere il mondo, la vita. Uno stupore che oggi si è un po’ perso…
Questo è uno dei compiti che l’attore, l’artista, ha sempre avuto nel mondo, ovvero quello di prendere il proprio cuore e lasciarlo stupire. L’importante è che qualcuno continui a farlo. Quando poi lo vedi in queste persone, senza filtri, che non hanno nulla, ti rendi conto di questa bellezza. Viene da chiedersi come sia possibile che l’uomo faccia del male ad un altro uomo. Dopo aver incontrato questo popolo non puoi più andare a dormire facendo finta di niente. È una cosa che ti cambia la vita.
Dopo l’evento a Trieste ce ne saranno altri?
Sì, ma non posso ancora svelare nulla, posso soltanto dire che ce ne sarà uno a Roma e uno a Rivoli. C’è tanta richiesta, perché credo che la gente abbia capito che non lo facciamo per farci notare, non ne abbiamo bisogno, ma lo facciamo con gioia per una cosa immensamente più grande di noi; è un impegno che prendiamo in prima persona. Inoltre la gente vede che tutto è trasparente. È importante perché vogliamo che la gente sia tranquilla quando fa delle donazioni…
Anche perché oggi si fa un po’ fatica a credere…
Sì. Noi abbiamo fatto una battaglia contro l’indifferenza, la nostra indifferenza quella che all’inizio ci ha fatto credere che non saremmo mai stati in grado di fare qualcosa con Every Child. Quello però è stato il momento in cui è nata la voglia di reagire, di rispondere. L’ho apprezzato molto.
Si vede che il vostro lavoro è fatto con il cuore, che è vero…
Il cuore non può più essere secondario, è tornato a essere primario però con la testa che dice che i soldi si possono dare soltanto a chi merita, a chi non li spreca. Gli artisti si prestano volentieri per questi eventi; io cerco di coinvolgerli sempre, siamo amici…
È una sorta di grande famiglia…
Sì, è bello. Solo quando si fa una cosa tutti insieme ha senso.
Parlando di famiglia, lei torna spesso a casa, a Canelli. Le proprie radici sono importanti, bisogna saperle coltivare…
Le mie radici, casa mia, la mia famiglia sono importantissime e irrinunciabili. Io ho imparato dalla mia famiglia che se fai 30 puoi fare anche 31, 32, 33; basta avere la voglia di fare.
I suoi genitori le hanno trasmesso la passione per la pasticceria. A lei e a sua sorella, la pasticcera Elena Wendy, quando eravate piccoli capitava di provare a cucinare qualcosa?
In realtà non si può sbagliare molto in una pasticceria del genere, quindi non c’era tanto spazio per l’improvvisazione. Siamo però cresciuti sempre lì; ho molte foto di noi che viviamo in quel posto. Ricordo le feste di paese, le rievocazioni storiche, tutti i Natali in cui mamma lavorava di notte e noi le davamo una mano. Quando gli altri andavano in settimana bianca io e mia sorella restavamo in negozio e non lo dico con sofferenza…È una parte della mia vita importantissima!
In generale cosa le piace cucinare?
A me piacciono…tutti i dolci (sorride), ma mi piace fare la crema, i bignè, che sono le cose più semplici, e poi tutte le cose con le nocciole tipiche della nostra regione che ha anche il vino, che si abbina perfettamente, ma le nocciole mi fanno proprio impazzire!
Il dolce preparato da sua sorella per la Charity Dinner a Trieste, era buonissimo!
Grazie! Il dolce si chiama Rhope. La parte superiore è come una corda che tiene unite le persone (Rope, in italiano corda n.d.r), che ci aiuta, fatta con degli ingredienti mediorientali. E poi c’è la speranza (Hope), il nostro valore primario, testimoniata dalle meringhe bianche.
Descrive bene la vostra missione…
Sì, esatto e poi è un dolce semplice che però ha cultura.
Ed è anche ben equilibrato!
Elena è diventata veramente brava, si è proprio costruita! È partita dalle ricette di mio padre e poi le ha trasformate a modo suo. È stata proprio brava!
Oggi si punta tanto sull’estetica, non solo in cucina, dando poca importanza alla sostanza, quindi trovare un giusto equilibrio sarebbe l’ideale. Bisognerebbe farlo anche nella vita di tutti i giorni.
Esatto, sono assolutamente d’accordo!
Oltre alla pasticceria, lei coltiva le vigne. Come nasce quest’altra passione?
La mia famiglia ha sempre avuto queste vigne in campagna; da quando non ci sono più i nonni ho deciso di occuparmene io: sarebbe impensabile per me lasciar perdere tutto. È la radice della mia famiglia in Piemonte. Chiaramente non sempre riesco a stare dietro alle mie vigne di moscato, però mi ricordano di quando ci andavo con mio nonno. Adesso che è tempo di vendemmia, tornare a casa e vedere tutto ciò, è una bella soddisfazione!
Vi abbiamo visti ne “La dama velata”, in “Non dirlo al mio capo” e ne “La porta rossa”. In che occasione ha conosciuto Lino Guanciale?
Io e Lino ci conosciamo da un po’ di tempo perché dopo la scuola del Teatro Stabile di Torino che ho frequentato – lui invece ha fatto l’Accademia – abbiamo incominciato entrambi a muovere i primi passi nel teatro. Mi ricordo che c’eravamo incontrati a Torino. Entrambi lavoravamo lì; eravamo nel giro dei teatri stabili e ci conoscevamo un po’ tutti – eravamo anche della stessa generazione. Poi non ci siamo più incontrati finché non ci siamo ritrovati sul set de “La dama velata” che, se vogliamo, è la stessa formazione de “La porta rossa”: Io, Lino e Carmine Elia alla regia. È stato bellissimo! Io e Lino ci siamo parlati, capiti, avevamo lo stesso background e lo stesso amore per il teatro. Da lì in poi è nata una maggiore confidenza; siamo anche andati a lezione di cavallo insieme. Tutte queste cose ci hanno unito molto. Ogni volta che ci vediamo, magari davanti a una birra, ci raccontiamo le nostre vite, dove stiamo andando, cosa stiamo facendo. È una cosa molto bella perché è semplice, in più ho una grande stima di lui anche come lavoratore. A volte quando si lavora tanto, tutto può diventare molto pesante, ma lui ha sempre un sorriso sulle labbra.
In questo periodo a Trieste state girando “La porta rossa”. Come sta vivendo la città?
Da dio! Ora che non sono a Trieste, la città mi manca tantissimo. L’adoro proprio! La conoscevo già perché ero venuto tante volte a teatro a recitarci, inoltre il mio primo film al cinema, “Amore, bugie e calcetto”, l’ho girato proprio a Trieste. Sono particolarmente affezionato a questa città. Ho anche delle amicizie che ho seguito negli anni e ho rivisto quando sono venuto a girare “La porta rossa”; mi sono pure fatto un sacco di nuovi amici. Mi hanno detto che ora è arrivata la bora e sta cancellando l’estate. Io non ho avuto modo di conoscerla – sono stato a Trieste da giugno fino a pochi giorni fa – ma non ho ancora finito di girare, quindi chissà…
Lei conosce la triestina Ariella Reggio. Avete fatto un film insieme…
Ariella è proprio la mia adorata. Lei è stata la mia mamma in uno dei più importanti e bei film che abbia fatto che si chiama “Si può fare”. Da allora è proprio un amore a cuore aperto.
Ho saputo che le hanno regalato le “Elegie duinesi” di Rilke. Conosceva già questo libro?
Sì, è uno dei miei libri preferiti. In realtà con le Elegie ho una lunghissima storia. Se finissi su un’isola deserta uno dei tre testi che porterei nella mia valigia sarebbe proprio questo. Le parole e l’importanza di questo testo non mi avevano fatto ragionare che si trattava proprio di Duino, che sta vicino a Trieste. Quando poi, anche su suggerimento degli amici triestini, sono andato a vedere Duino, mi ha colpito molto. Il testo è talmente bello che mi piacerebbe poterlo leggere in uno spettacolo e non escludo che prima o poi si possa fare. Mi piace veramente tanto. È uno dei miei testi preferiti. Il messaggio delle “Elegie duinesi” lo trovo veramente straordinario!
A parte “La porta rossa” la rivedremo in TV con altri progetti?
Per adesso c’è “La porta rossa” e poi ci sono due progetti che però ancora non posso svelare, che partiranno adesso ma li vedrete poi.
Per concludere, secondo lei non bisognerebbe mai perdere…
L’entusiasmo bambino.