Amarcord: PRINCE “Parade” (1986)

Uno dei capolavori degli anni ’80 per ricordare Prince, il piccolo grande artista recentemente scomparso

-di Maurizio Melani-

  

Maledetto anno bisestile, maledetto tu sia 2016! In questo quotidiano stillicidio che ci sta privando di miti della musica, del cinema e della cultura, ci ha salutato anche Prince, alias “il genio di Minneapolis”. Inevitabile da parte nostra prodigarci in un piccolo Amarcord.

Su Roger Nelson – questo il suo nome di battesimo – è stato detto tutto nelle ultime settimane: dalla probabile causa della morte al credo religioso; dai 1000 brani inediti che avrebbe lasciato ai posteri, ai pessimi rapporti con le case discografiche, contro le quali scelse anche di modificare per un breve periodo (dal 1993 al 2000) il nome d’arte nell’acronimo Tafkap (The Artist Formerly Known As Prince).

 

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A differenza di tutti coloro che lo hanno osannato come autore della splendida colonna sonora di “Purple rain” (film di cui fu anche protagonista), noi desideriamo “amarcordarlo” per un altro dei suoi dischi doc: quel “Parade” che col doppio Lp “Sign o’ the times” rappresenta l’immancabile trilogia per chi vuol conoscere o riscoprire il piccolo genio di Minneapolis.

 

 

Tutti gli artisti hanno lo stile musicale di riferimento. Pochi possono entrare nei libri per averne lanciato o magnificato uno. Prince non inventò il rock, il funk o il pop, ma riuscì a fonderli, a modernizzarli, creando un amalgama sonoro che andava oltre il buon vecchio James Brown e la prima discomusic, non disdegnando assoli di chitarra e basi squisitamente elettroniche. Il tutto racchiuso sotto la bandiera di una forte sensualità che sempre sprizzava dai testi e dall’immagine pubblica.

 

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Questo melting pot sonoro è tanto più presente in “Parade” dove, a fianco della funkeggiante “Kiss” e della minimalista “Girls & Boys” – quella con lo splendido accompagnamento di sax – vi sono brani modulati senza pause e ricchi di sperimentazione: dalla canzone di apertura “Cristopher Tracy’s Parade” e  da “I wonder U”, in cui la psichedelia stile “Sergent Pepper’s” dei Beatles prendeva forma su manipolazioni di computer ed elettronica, al pop d’autore di “Mountains” e dell’impronunciabile “Anotherloverholenyohead”. Già, perché a Prince piaceva gigioneggiarsi non solo in cambi d’abito kitsch, ma anche nelle arti grafiche. E lo faceva in modo così originale, bizzarro, moderno, controcorrente, che non è una bestemmia definirlo un Hip-Hopper ante litteram.

Un ultimo consiglio. Se avrete voglia di ascoltare anche il mitico doppio “Sign o the times”, oltre alla sempre attuale title track, non perdetevi “Hot thing”: uno dei più lunghi e belli assoli di sax che la pop music abbia mai prodotto. Anche questa era arte, anche questa era genialità.

 

 

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