Amarcord: BEACH BOYS – Pet Sounds (1966)

– di Maurizio Melani –

 

Cinquant’anni fa usciva uno dei capolavori della pop music che più di ogni altro influenzò il mitico “Sergent Pepper’s” dei Beatles e il movimento psichedelico.

  Vi ricordate la surf music e le canzonette stile “Fun fun fun”, “I get around”, “Surfin’ Usa”? E quei sorrisi sgargianti modello primi Beatles che, con le tavole da surf, cavalcavano l’onda della generazione figlia del benessere? Scordatevi tutto. Resettate faccioni, muscoli, “Romagna mia” e quant’altro fa rima con i primi Beach Boys. Ripartiamo da zero.

 

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Anno domini 1966. A San Francisco e in tutta la West Coast qualcosa di importante sta per scoppiare. E’ in atto un grosso fermento. Il tema del Vietnam sta entrando nelle discussioni comuni, le università sono in fibrillazione, i grandi artisti (in primis Bob Dylan) scoprono la droga come forma di contestazione e la Beat Generation di Kerouac e Ginsberg ammonisce sul neo consumismo. Il mondo, l’American Way of Life sta volgendo verso l’ignoto e non c’è più spazio per la canzonetta yè-yè.

 

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Bran Wilson, genio sperimentatore, comincia a giocare con acidi e tastiere e alla vigilia del grande botto – quel 1967 che lancerà i primi vinili di Hendirix, Doors, Pink Floyd, Velvet Underground tagliando anche il nastro del movimento psichedelico – farà uscire un disco capolavoro con un sound fino a quel momento sconosciuto. Che c’azzeccano suoni di tastiera, chitarra acustica e arrangiamenti con trombe e tromboni? E quei campanelli di bicicletta in coppia con cani abbaianti? Qualche vecchio fan dei “ragazzi di spiaggia” se lo sarà chiesto. E non fu il solo. Leggenda vuole che il cantante Mike Love urlò furibondo a Wilson: “Who’s gonna hear this shit?”.

 

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Si sbagliava. “Pet sounds” diventò nel giro di breve tempo un disco cult, un punto di riferimento per le nuove e vecchie band in cerca di stili ed espressioni oltre i classici giri di Rythm&Blues. E fu un continuo rincorrersi e annusarsi con i Beatles. Brian Wilson rimase folgorato da “Rubber soul” che nel 1965 superava il genere beat della British invasion introducendo nuovi sound e immagini (leggi il nostro servizio sulle copertine dei Beatles). Lennon e Mc Cartney risposero consumando “Pet sounds” e mettendolo al centro della loro svolta musicale. Ma come tutti i folli geni masticatori di Lsd anche Wilson, “diamante pazzo”, si perse tra auto-isolamento e personali paranoie.

 

 

“Woudn’t it be nice”, il pezzo d’apertura del disco, era un sogno a occhi aperti, una sorta di “My generation” in chiave romantica e vagamente pacifista. I brani successivi cantavano invece un alternarsi di amori spesso complicati – “God only knows”, “I’m waiting for the day”, “Caroline, no” – e racconti del disagio interiore dell’autore, come “That’s not me”, “I know there is an answer”, “I just wasn’t made for these times”. Perfetto interludio quella “Sloop John B”, storia di un pazzo e divertente viaggio in barca. Di macchine veloci, tavole da surf e ragazze in bikini nemmeno l’ombra.

 

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