– di Maurizio Melani –
Primo splendido LP del collettivo più sperimentale e rivoluzionario della musica italiana, gli Area. La morte di Demetrio Stratos nel 1979 ne segnò la diaspora
Cari Amarcorders, c’era una volta un mondo scientificamente diviso in blocchi. C’erano una volta le ideologie, la Politica, l’impegno anche a rischio della vita stessa. C’erano una volta la coscienza civile, l’eco della Resistenza e lo schifo per gli orrori della Guerra Mondiale. Sono passati molti anni. Addirittura – sostiene qualcuno – un millennio. Ma lo scorso millennio, se ci pensate bene, è solo sedici anni e mezzo fa. Neppure il tempo di una maturità scolastica. Anche se la fagocitante modernità ha fatto tabula rasa di tutto. Ideali, ricordi, indignazioni comprese.
In quel contesto nasce uno dei dischi più belli della musica italiana. Cantato dalla voce più elegiaca, completa, sbalorditiva. Suonato dalla banda più sperimentale e tecnicamente forse mai eguagliata. Uno di quei pochi Lp che, se ascoltati a tutto volume, ancora riescono a condurre dove quasi tutti gli altri falliscono: un omogeneo mix di adrenalina, rabbia, emotività, pianto. Voglia di spaccare il mondo (“Giocare col mondo/Facendolo a pezzi”, è per altro l’incipit) e poi sparire per sempre. Ma anche esserci, combattere. E ringraziare Iddio – ognuno il suo – di averci riportato a nuova vita e la voce di Demetrio Stratos di averci ricordato che la vita non è solo frottole e brillantina.
Demetrio Stratos: come fare in poche righe a parlare di un artista che toccò margini mai raggiunti? Non solo fu il primo a inserire ululati e vocalizzi all’interno della musica italiana moderna, ma la sua costante ricerca sulla voce come strumento raggiunse risultati al limite della capacità umana eseguendo diplofonie, trifonie e quadrifonie (due, tre, quattro suoni emessi contemporaneamente). Nato ad Alessandria d‘Egitto da genitori greci nel 1945 e trasferitosi in Italia nel ‘62, cantò dapprima coi Ribelli la mitica “Pugni chiusi” prima di formare il nuovo ensemble. Gli ultimi anni della sua vita collaborò attivamente col grande John Cage.
“Arbeit macht frei” era tutta una splendida provocazione in stile anni ’70. Quando musica, cinema, arte, foto e grafica non erano scienze separate ma collaboravano magistralmente all’obiettivo dello shock, della gioia e della rivoluzione. La copertina mostrava una scultura in legno di Edoardo Sivelli: un umanoide in catene con in mano la chiave dell’ipotetica libertà. Quella che schifosamente prometteva la scritta sopra il cancello di Auschwitz. Ma era l’interno a lasciare ancor più di sasso, con una P38 in cartone, orgogliose falci e martelli e le famose foto con la kefia. All’epoca simbolo della libertà del popolo palestinese. Ecco da che parte stavano gli Area. O dove veleggiava la controcultura post ’68 e pre ’77. E all’epoca era quasi obbligatorio scegliere. A rischio della vita o, più modestamente, della propria carriera.
E infatti già il brano di apertura, uno dei più amati della band, “Luglio, agosto, settembre nero” – omaggio al “settembre nero” palestinese del 1970 – ebbe grosse difficoltà a essere trasmesso per radio. Settembre Nero era infatti anche il commando terroristico che aveva ucciso 11 atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco 1972. “Non è colpa mia se la tua realtà/Mi costringe a fare guerra all’umanità”, sparava a raffica il brano. In uno splendido delirio sonoro di rock, blues, jazz sperimentale, progressive, arrivava la title track (”Nelle tue miserie/Riconoscerai/Il significato/Di un arbeit macht frei”. E cos’è la “Consapevolezza” se non il rendersi conto che la morale ”ti vuole ancora imprigionato tra mediocrità”? La soluzione è semplice. Accetta l’invito: ”Lascia partire il tuo ascensore/Lascialo andare e prendi il potere”.
Uno dei ricordi più belli degli Area ce l’ha lasciato Elio e le Storie Tese. Ovviamente nel loro stile: “Che bravi che erano gli Area/International Popular Group/Demetrio cantava di tutto/Accompagnato da musicisti che suonavano di brutto/Esploravano musiche nuove/E la gente ascoltava/Un pubblico costituito da giovani comunisti, capelloni e drogati”.
foto di apertura tratta da http://musicitaly70.blogspot.it/2015/09/maggio-1975-area-la-polemica-tra.html
Che fine hanno fatto gli Area? Oltre a fugaci reunion strumentali, Patrizio Fariselli scrive colonne sonore cinematografiche, Paolo Tofani si alterna tra vocazione spirituale e composizione sonora, il batterista Giulio Capiozzo è purtroppo deceduto nel 2000, Patrick Djivas, il primo bassista, lasciò la band dopo questo disco per unirsi alla PFM. Il sostituto fu il grande Ares Tavolazzi, apprezzato jazzista e da oltre quarant’anni collaboratore fidato di Francesco Guccini in studio e live.
Se qualcuno di loro volesse intervenire per lasciare il proprio ricordo su Demetrio e la storia degli Area, saremmo lieti di ospitarlo nelle nostre pagine.
La cover interna del disco