– di Riccardo Lestini –
I grandi Maestri lasciano eredità smisurate, insegnamenti capaci di illuminare non solo i sentieri immacolati dell’arte e della creatività, ma anche – forse soprattutto – il nostro privato percorso esistenziale di esseri umani.
Lo sa bene l’attore e regista Gianluca Brundo, classe 1970, ultimo assistente e allievo personale del maestro Orazio Costa. Lo abbiamo incontrato, non a caso, a Firenze, al Teatro della Pergola, luogo a suo modo “sacro”, dove il Teatro (la maiuscola è d’obbligo) si fa ancora e si fa davvero. Qui, in uno strano pomeriggio novembrino di sole e caldo primaverili, al riparo da facili millanterie ed etichette di comodo, Brundo ci ha aperto il prezioso scrigno dei suoi ricordi, delle sue esperienze e dei suoi pensieri.
Un percorso artistico, quello di Brundo, a suo stesso dire “illuminato” da quella “vecchia generazione” che oggi, purtroppo, non esiste più, iniziato oltre vent’anni fa alla Bottega di Gassman e culminato appunto, a metà degli anni novanta, nell’incontro con Costa. A quegli anni, a quell’esperienza cruciale e privilegiata, Brundo ha anzitutto dedicato un libro importante e decisivo per scoprire e comprendere “dal di dentro” uno dei più grandi artisti del teatro italiano del ‘900: I miei anni con il maestro Orazio Costa, pubblicato nel 2013 per i tipi di Edizioni Lui.
“Questo libro è un atto d’Amore”, si legge nella Prefazione, “Un atto d’Amore per il mio Maestro. A lui devo la mia rivoluzione artistica ed il consolidamento dell’innata tendenza caratteriale volta verso l’introspezione, il senso della moralità e del teatro etico, la disciplina, il gioco della creatività. A differenza della maggior parte dei miei coetanei e non solo, la mia fu una ribellione giovanile silenziosa, interiore, senza grandi gesti evidenti ed ancor meno plateali. Una ribellione che mi ha permesso di sviluppare l’anima, l’estro, per scoprirmi diverso e lontano dalle mode, dai gruppi, da una socialità anch’essa frutto di tendenze. Su questo sostrato in continuo ribollire Costa ha lasciato un segno indelebile”.
Parole autentiche, viscerali, sincere e appassionate, che ci danno subito la misura del quid più importante del rapporto tra Maestro e Allievo: l’indissolubilità dell’esperienza umana ed esistenziale da quella puramente artistica e creativa.
Come è capitato Orazio Costa sulla tua strada, o tu sulla sua? Si è trattato di un incontro casuale?
Se per “caso” intendiamo “destino” sì, è stato un incontro casuale. Nel senso che a Costa ci sono arrivato tramite un altro suo allievo. Però poi c’è stata la scelta di frequentarlo, la scelta voluta e consapevole di diventare suo allievo. Ed è stato senza dubbio l’incontro fondamentale del mio percorso. Alla Bottega di Gassman ho imparato il “mestiere”, vale a dire come stare sul palco, ma con Orazio Costa sono diventato artista: mi ha fatto scoprire il talento che avevo dentro. Mi ha dato talmente tanto che spesso, facendogli da assistente, mi capitava di dire: “pensa, mi ha addirittura pagato!”
Com’era Orazio Costa nell’approccio al suo lavoro?
Privo di mezzi termini, allergico ai compromessi, moralmente rigido. Continuamente critico e autocritico, intendeva il lavoro come una ricerca continua e incessante. Ma soprattutto rigoroso fino all’ossessione. Si passavano pomeriggi interi su una sola parola, i suoi rimproveri potevano essere feroci, ma sempre nel più assoluto rispetto dell’uomo.
A leggere il tuo libro e ad ascoltarti, il vero leit motiv è proprio questo discorso sull’uomo, sull’essere umano…
Perché Costa non è stato un maestro di attori, ma un maestro di uomini. Il suo approccio si rivolge prima all’uomo che all’attore. Ha formato migliaia di uomini e il suo teatro è stato anzitutto scuola di vita, riscoperta di essere uomini.
Oggi la dicitura “metodo Costa” è usata più che altro come etichetta superficiale, senza spiegazioni né approfondimenti. Tu che sei stato a così stretto contatto con il Maestro, sapresti spiegarci cosa è e in cosa consiste?
No, in realtà non ho la risposta, perché spiegarlo a parole è impossibile, anche per me che lo ho catalogato. A chi lo volesse scoprire davvero direi semplicemente “vieni a fare uno stage”, dal momento che si tratta di un’esperienza così profonda e totalizzante che solo la pratica potrebbe farlo comprendere davvero. Inoltre hai ragione, “metodo Costa” è un’etichetta, il metodo Costa non esiste. Si chiama “metodo mimico” in realtà, e consiste in un approccio fisico alla realtà sensibile, nel padroneggiare il naturale riflesso mimico che i fenomeni naturali che ci circondano hanno su di noi. Un lavoro attraverso cui ci riappropriamo di una potenza di trasfromazione creativa, riacquistiamo fanciullezza.
Oggi, a partire dai continui tagli imposti a qualsiasi manifestazione culturale, si avverte una crisi sempre più profonda e una sempre più drammatica riduzione degli spazi dell’arte in generale e del teatro in particolare. Tu che hai avuto un percorso “baciato” dai grandi del passato, come vedi la situazione odierna e come pensi si possa “salvare” il teatro?
Sicuramente nel panorama odierno c’è meno talento di quel che si dice, sarebbe necessario un miglioramento del livello generale e soprattutto sarebbe necessario che ci fosse più coraggio. Detto questo io penso che il teatro, dal momento che ha come condizione endemica la sopravvivenza, non morirà mai. Inoltre percepisco attorno una sete di sentirsi uomini, visto che le persone non sanno più cosa sia un uomo. E il teatro è questo che deve fare. L’attore deve riprendersi il concetto più autentico di “teatro”, inteso cioè non tanto come luogo dello spettacolo, quanto come luogo del “riguardare”, vale a dire di un’interazione, di uno scambio continuo tra attore e spettatore, un vero e proprio percorso di conoscenza e coscienza di se stessi e degli altri. L’attore deve essere il contenuto di tutto questo, perché l’uomo deve tornare a essere contenuto. E dove il teatro ha il coraggio di continuare a essere tutto questo, come qui alla Pergola, continua a vivere, a sopravvivere e a essere in ottima salute.
C’è anche, nella nostra società, una sorta di faciloneria nell’approcciarsi al mestiere dell’attore. Un ragazzo che oggi volesse intraprendere questa strada, cosa dovrebbe fare?
Coltivare la passione ed essere testardo. Il talento poi… be’, quello appartiene soltanto all’anima.
Tornando a Costa, oltre al libro I miei anni con il Maestro Orazio Costa, i suoi insegnamenti e il suo ruolo centrale nel tuo percorso sono “protagonisti” anche del tuo spettacolo Una passione lunga una vita, che debutterà sabato 14 novembre alla sala “Spadoni” qui alla Pergola. Prima parlavi della necessità della pratica per comprendere il metodo: il “passaggio” dal libro alla scena è frutto anche di questa riflessione?
Costa mi ha dato talmente tanto, grazie a lui sono cresciuto così tanto come uomo che il libro è nato dalla necessità di lasciare una traccia scritta e indelebile di tutto questo. Lo spettacolo in parte si muove in una direzione simile, ma anzitutto è una “summa” dei miei venticinque anni di carriera, dei personaggi più importanti che ho interpretato. Della mia storia di uomo e di attore insomma, e della consapevolezza di come e quanto il rapporto con Orazio Costa sia stato centrale e determinante in tutto questo. Uno spettacolo che vuole, e deve, essere in formazione ed evoluzione continue: non solo un punto sulle mie esperienze passate, ma anche e soprattutto una prospettiva verso il futuro. Uno spettacolo di vita, da aggiornare e recitare per tutta la vita.
Lo spettacolo Una passione lunga una vita sarà in scena dal 14 novembre al 9 dicembre alle ore 18, alla sala “Spadoni” del Teatro della Pergola, sala che verrà inaugurata proprio con lo spettacolo di Brundo.
Foto dell’articolo per gentile concessione di Gianluca Brundo