-di Tommaso Chimenti-
Cinquecento anni dalla morte. Che cosa ci sarà da festeggiare in una morte? Si era chiesto dal palco del suo “Leonardo” il controverso Vittorio Sgarbi. Giustamente. Ma il nostro è il tempo dove ogni giorno abbiamo bisogno di una festa, di una ricorrenza, per il mercato, per il marketing, per sentirci meno soli, per aggregarci tutti attorno ad un falò (delle vanità), per “condividere” ognuno dal suo divano, dalla sua gabbia, nemmeno così dorata. Ma le ricorrenze, si sa, sono occasioni, pretesti da cogliere, cosa che hanno fatto da una parte il Dramma Popolare (dopotutto Vinci dista da San Miniato meno di venti chilometri) che già dall’anno scorso si è ringiovanito e rinverdito (ci è voluta una bella dose di coraggio, ripagata ampiamente), dall’altra nel regista Michele Sinisi (e del suo team, citiamo i fondamentali Francesco Asselta alla drammaturgia, sempre fecondo di idee, e Federico Biancalani, per le scene illuminanti e spiazzanti) che si è messo in gioco, sparigliando le carte istituzionali e portando la sua visione, il suo percorso, la sua voglia di un teatro che persegua i binari della fruibilità, dell’apertura, dell’inclusione e del piacere estetico dello sguardo.
Già dal titolo si capisce che questo spettacolo-celebrazione leonardiana sarà diverso da quelli già visti fino ad adesso (1519-2019) e a quelli ai quali assisteremo da qui fino alla fine dell’anno: non è uno spettacolo su Leonardo ma sul suo affresco più conosciuto e ammirato, il “Cenacolo” al quale qui viene aggiunta la formula “12+1” come fosse un enigma, come fosse un arcano da risolvere del Codice da Vinci, come fosse un mistero da interpretare, una cassaforte da aprire, uno scrigno magico da forzare, un anagramma da completare, un puzzle da riempire, una derivata da risolvere. 12 + 1 fa tredici come i partecipanti all’Ultima Cena. Tredici a tavola, e morì il più giovane. C’è un grande studio dietro questa nuova operazione (riuscitissima) firmata Dramma Popolare, Teatro di Roma e Elsinor, un assemblaggio stratificato di situazioni, momenti storici e passaggi che ci danno sia il senso della grandezza dell’opera, sia del Tempo che scalfisce e cura, annienta ed esalta, sia della nostra voglia umana di mirare al passato per giustificare il presente, questo senso nostalgico di mancanza e deficit, buco nero dal quale attingere. Dodici gli apostoli più uno l’Altissimo che non può essere conteggiato nello stesso paniere. Ed allora ecco dodici quadri, dodici scene, dodici capitoli veloci e frizzanti, dodici frammenti, come flash estrapolati, come abbagli di luce sradicati da tutto il possibile detto e da dire sul capolavoro, la genesi, i cambiamenti, i cinquecento anni che ha sulle spalle, nelle pieghe, nelle rughe.
Dietro, a mezz’altezza, staziona minacciosa la raffigurazione dell’Ultima Cena, ma rimane sospesa, sempre in bilico tra scendere o elevarsi e non mostrarsi, un’opera che però è, e rimane, coperta e pare una nube o meglio la Nuvola di Fuksas a Roma, elegiaca, mistica ed evanescente ma anche presente, pressante e possente. Una hostess di bordo (vengono alla mente quella fantozziana in “Pappa e Ciccia” come la pellicola aldomovariana “Gli amanti passeggeri”) che ricorda anche le signorine con il cartello tra un round e l’altro negli incontri di boxe, introduce le varie scene. Ecco che il trash colorato si sposa con un pop mai frivolo, giocoso, che scalda e diventa malleabile e masticabile, un linguaggio quotidiano condito da coreografie, musica, intermezzi, grandi scenografie che si susseguono, dialetti (il veneto e il siciliano, l’emiliano e il napoletano fino al carioca) che si rincorrono e che danno una pasta italica, nostrana e terrena (una delle cifre di Sinisi), comprensibile.
Uno spettacolo poliedrico che riesce a miscelare con gusto più stili, una piece dal respiro europeo (il mix sapiente tra teatro di parola e musica ci ha portato alla mente il regista fiammingo Jan Lauwers o i Peeping Tom o ancora, per restare in Italia, le performance ironiche e cariche di Silvia Gribaudi) dove alla profondità del tema, alla storiografia, alla ricerca del passaggio di conoscenza e sapere si unisce una dose di facilità di attraversamento, un assist al pubblico che qui mai si sente escluso o abbandonato ma sempre benvoluto, accompagnato, invitato ad entrare e sedersi, metaforicamente, in mezzo ai tredici in scena. Un teatro pro platea, dopo averne visto molto che si mette in conflitto e in contrapposizione al pubblico, spesso ritenendolo non adatto o troppo “basso” per capire l’arte da loro proposta dal palco. Se ne esce soddisfatti, il tempo è corso veloce sui nostri polpastrelli, sui sorrisi, sugli occhi stretti alla ricerca dei dettagli. Tante le scene da sottolineare, gli attori da esaltare (mancavano le colonne portanti di altri lavori del regista pugliese: Gianni D’Addario e Ciro Masella), dall’hostess Stefania Medri, al custode Stefano Braschi, al professore al mixer Nicolò Valandro fino al cardinale Eugenio Mastrandrea.
Ed è, come sempre quando dietro le quinte si scatena il duo Sinisi-Asselta, una festa felice per gli occhi, una festa per il teatro, una ventata a spazzare via lontano la polvere, soffiare la pesantezza, respingere la noia; e si passa, con la nonchalance leggera che attiva neuroni e fa scintillare sinapsi inaspettate, da Jimi Hendrix a Andy Warhol, da Napoleone a Thomas Bernhard senza scordare l’immancabile Shakespeare, lanciati nell’agorà come credits, come bibliografia consultabile, come hashtag di un discorso culturale che oggi non può più avere né confini, né lingue, né barriere, né compartimenti stagni ma che deve necessariamente essere osmotico e saper cogliere dai vari rami, sviscerando tutti gli aspetti, dai più alti ai più profani dell’opera, il menù dell’Ultima Cena, il rapporto con l’opera che nessuno cita e tutti dimenticano che sta di fronte nel refettorio di Corso Magenta a Milano, la “Crocifissione” di Montorfano, la costruzione dei pennelli dell’epoca, due prostitute che discettano: un mosaico composito che splende di luce propria. Un lavoro nazional-popolare intelligente, acuto, che ti esplode tra le dita. E che, appena finito, vorresti subito rivedere. A Leonardo sarebbe piaciuto.