–di Valeria Ronzani–
Ancora fino al 22 gennaio per visitare quella che probabilmente si candida come mostra dell’anno, la grande retrospettiva che il fiorentino Palazzo Strozzi dedica a uno degli artisti più influenti della scena contemporanea, il cinese Ai Weiwei. Dal 2015, per il suo impegno nel campo dei diritti umani, nominato da Amnesty International, insieme a Joan Baez, Ambasciatore della Coscienza. Cerchiamo di tracciare un bilancio per un’esposizione che resterà comunque storica. Al di là delle polemiche e degli attacchi anche personali. Davvero due schieramenti l’un contro l’altro armati.
Ai Weiwei è tornato libero ed evidentemente dà fastidio. La grande retrospettiva che il fiorentino Palazzo Strozzi gli dedica, la prima di questa completezza in Italia, se non è la mostra dell’anno poco ci manca. Già più di 110.000 visitatori, che per una mostra di arte contemporanea può definirsi un successo sorprendente. Lo possono testimoniare gli occhi della sottoscritta, le code sono reali. La mostra, visitabile ancora fino al 22 gennaio 2017, non a caso si intitola “Ai Weiwei libero”, perché, come sottolinea Karen Smit nel saggio in catalogo, dal 22 giugno 2011, quando venne rilasciato dopo 81 giorni di carcere, esiste un Ai Weiwei pre-detenzione, artista e provocatore, e uno post-detenzione, attivista e dissidente. L’esposizione, altra primizia, invade tutti i piani dello storico palazzo, senza relegare il linguaggio dell’oggi ai pur meritevoli spazi del seminterrato della Strozzina. Con un colloquio serrato, mai invasivo, con le architetture di uno dei massimi capolavori del nostro rinascimento. Lo ha voluto, lo ha chiesto proprio lui, niente allestimento, solo la mirabile architettura di Palazzo Strozzi. Grazie per avercelo fatto riscoprire.

Blossom (Fioritura), 2015. Porcellana, cm 8 x 80 x 80 ciascuna,
cm 8 x 2400 x 320 installazione. Courtesy l’artista e Galleria
Continua, San Gimignano/Beijing/Les Moulins/Habana
Proprio l’essenzialità del linguaggio di Ai Weiwei è una delle cifre stilistiche che gli permette un confronto così totalizzante eppure non invasivo. Oltre all’altissimo tasso tecnico di molte realizzazioni. Ma non siamo tutti, a leggere certe critiche scandalizzate, a giudicarlo un colloquio riuscito. Non stupiscono gli altissimi lai di chi oppone resistenza a qualsiasi proposta men che tranquillizzante, e le polemiche per l’offesa all’equilibrio rinascimentale del Palazzo erano verosimilmente date per scontate dal curatore della mostra, nonché direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, e probabilmente dall’artista stesso. Il riferimento è naturalmente per l’installazione ‘site specific’ “Reframe”, che incornicia le bifore del piano nobile della facciata del Palazzo con una serie di gommoni, citazione di quelli dei migranti della diaspora siriana. Visibile a tutti fin dai primi di settembre in fase di montaggio. Apriti cielo. Ma se le ire dei conservatori erano da mettere in conto, quelli che lasciano interdetti sono gli attacchi al fiele di una nutrita serie di critici contemporanei. A sorpresa, una difesa altamente motivata viene da uno che ha la fama di ‘fustigatore’, lo storico dell’arte Tomaso Montanari. Storico dell’arte, appunto, quindi ben conscio dell’evoluzione storica dei linguaggi
espressivi, delle funzioni dell’arte e, da bravo storico, abituato a parlare a ragion veduta. Così le sue riflessioni appaiono totalmente condivisibili. “Per una volta, Firenze non è costretta ad ospitare un ‘contemporaneo di seconda mano’, con ‘novità’ ideate dieci o vent’anni prima per altri luoghi. Quella di Ai Weiwei è un’opera pensata specificamente per Palazzo Strozzi: e trovo interessante, ad esempio, l’analogia tra la forma dei gommoni e quella dell’arco acuto che caratterizza le bifore. Un’analogia – prosegue Montanari – che rispetta le linee del palazzo e al contempo le altera con un messaggio fortissimo. Noi siamo abituati a pensare alla tragedia dei migranti come qualcosa di lontanissimo dal lusso dell’arte: Ai Weiwei ci ricorda che non è così, ed è particolarmente significativo che lo faccia in una città come Firenze, che si sta trasformando sempre più in una bomboniera per turisti, seguendo lo sciagurato esempio di Venezia”. Non solo, ma non si sottrae a quella che è la contraddizione evidente. Scrive infatti su Repubblica: “l’artista cinese è un dissidente, ma è anche ormai una pop-star del sistema occidentale: è vero, ed è ovviamente solo per la seconda parte di questa sua ambigua natura che egli ha libero accesso nelle sale espositive dell’Occidente. Ma questa contraddizione — lacerante, e tuttavia difficilmente superabile, se vogliamo che i cittadini occidentali possano conoscere anche un altro modo di fare arte — non intacca il senso profondo dell’opera di Ai Weiwei. Un artista che usa un luogo simbolo di quel salotto buono esclusivo che è ormai Firenze per parlarci della vita e della morte dei migranti non può essere liquidato con sufficienza”. Appunto.
Evidentemente certi temi infastidiscono però il salotto buono della intellighenzia della critica d’arte, che Ai Weiwei pare non tollerarlo proprio. Quale è la sua colpa? Fa quello che l’arte dovrebbe fare: ci fa riflettere. Le sue opere, sia quelle più riuscite che quelle che ci possono lasciare più freddi, hanno sempre un contenuto ‘pensante’. Per dirla in parole povere, è quello che alcuni decenni fa si sarebbe detto un ‘artista impegnato’. Orrore e raccapriccio, a cui si assomma la colpa imperdonabile di avere pure successo. Partito lancia in resta nella santa crociata moralizzatrice, Francesco Bonami già nel libro “Il Bonami dell’arte” ne aveva fatto un ritratto spietato, definendolo “un arrampicatore stratega furbissimo che pur di diventare famoso avrebbe fatto di tutto”. Rincarando la dose in una recensione pesantissima sulla mostra fiorentina uscita su La Stampa. Più che altro cercando ulteriormente di distruggere l’artista. “Ai Weiwei più che un artista è stato un architetto affascinato dal successo di tanti artisti contemporanei. Per ottenerlo ha usato la scorciatoia della dissidenza politica. Cosa non difficile da praticare in Cina”.
Figlio a sua volta di un dissidente politico, il poeta Ai Qing, definito dal Partito Comunista Cinese “Triplo criminale” (nei confronti del Partito, dello Stato e del Paese) e per questo condannato al confino, il piccolo Ai Weiwei, nella sua infanzia passata nel deserto di Gobi, evidentemente già meditava come utilizzare una volta cresciuto questa sua formazione per costruire la propria fama. Enfatizzando quegli 81 giorni di reclusione e quelle manganellate in testa, oltre che il periodo di confino, per costruirsi la propria immagine di martire e, una volta riavuto il passaporto, nel 2015, buttarsi a un mercantilismo sfrenato (anche se artista affermato, e molto, lo era pure prima). Nel solco di Bonami, su Artribune, Helga Marsala, anche se meno astiosa e più circostanziale. Ma l’accusa di usare il dolore come un brand rimane.

Dropping a Han Dynasty Urn (Distruzione di un’urna della
dinastia Han), 2016. Mattoncini LEGO, cm 191,9 x 153,5 x 3
ciascuno. Courtesy of Ai Courtesy of Ai Weiwei Studio. Si
ringraziano gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Firenze
Che dire, il tema è complesso, richiederebbe un trattato di letteratura storico artistica. Lui in una conferenza stampa che si trasforma in cronaca, trascurando il dato artistico, come cerca di riportare all’ordine Galansino, riesce a trasmettere una sensazione di grande forza. “In Cina ci tornerò, lì è rimasta mia madre”. Speriamo, con buona pace di Bonami, che ce lo rimandino indietro (attualmente vive a Berlino). E ancora: “forse sto invecchiando, sono attratto dalle forme artistiche del mio paese, soprattutto dalle tecniche tradizionali artigiane, voglio capirne sempre di più”.
In effetti in mostra abbondano le opere in cui si dà prova di questa incredibile perizia artigiana. Però, come dire, non sembri una bestialità, Ai Weiwei non dà l’impressione di essere un artista cinese. Non totalmente, almeno. L’impronta generatrice delle sue opere ha una matrice diversa. Ha ragione Helga Marsala quando dice che sembrano tutti ‘ready made’, ma non necessariamente questa è una connotazione negativa.

Grapes (Grappolo), 2013. 34 sgabelli della dinastia Qing (1644-
1911), cm 170 x 208 x 184. Courtesy of Ai Weiwei Studio
Sul sito di Palazzo Strozzi c’è una sezione preziosa che consigliamo a ogni curioso, Ai Weiwei story. Dove ognuno potrà sbizzarrirsi con facilità a cogliere informazioni stimolanti per cercare di capire, e farsi un’idea oltre i preconcetti. Nel febbraio del 1981 Ai Weiwei si trasferisce negli Stati Uniti. Nel gennaio del 1982 la sua prima personale viene allestita a San Francisco alla Asia Foundation Gallery. Mentre la sua opera Hanging man, del 1983, è un ‘objet trouvé’ che rappresenta un omaggio a Duchamp. Eccolo uno degli ispiratori della sua nuova arte. Che non sarà mai dimenticato, come Andy Warhol e Jasper Johns. Negli anni ’80 il ragazzo, che vive nel Queens, poi a Brooklyn e infine in un appartamento non ammobiliato nel Lower East Side a Manhattan, dà prova anche di altri talenti. Grazie alla sua abilità nel blackjack viene accompagnato da un autista ai casinò in limousine. Spesso con l’amico Vinnie, detto “Occhi di serpente”, va a giocare ad Atlantic City. Racconta Vinnie del loro primo incontro: «Stavo giocando male e perdevo molto, poi questo ragazzo asiatico, che sembrava uscito da un film di kung-fu e che giocava accanto a me, ha cominciato a dirmi quando stare, chieder carta o passare. Io non ascolto nessuno, ma ogni volta che non gli davo retta, perdevo la mano. Così ho cominciato ad ascoltarlo. Quella notte sono riuscito a vincere centinaia di dollari».
Nel 1985 diventa amico di Allen Ginsberg (1926-1997), che aveva conosciuto il padre in Cina nel 1984. Nel 1993 ritorna in Cina alla notizia che il padre è ammalato. Insieme alla compagna, poi moglie Lu Qing, si impegna negli Apartment Art in cui gli artisti concepiscono e mostrano arte, spesso radicale, nelle proprie case. Comincia a collezionare antichi mobili e ceramiche. Comincia anche la sua vita di ‘artista e provocatore’, fino a quella svolta, quando la vita ti gira e sai che non sarà più nulla come prima, il 3 aprile 2011, con l’arresto all’aeroporto di Pechino. Dal 22 giugno esce dal carcere ‘il dissidente’. La mostra fiorentina ben racconta tutto questo vissuto artistico. A chi lo vuole leggere, decodificando la storia che ogni opera racconta. Più o meno emozionale starà alla sensibilità del visitatore. Certo banale mai.
Intanto Arturo Galansino, dopo Ai Weiwei si prepara ad un uno-due micidiale per tutti i colleghi ringhiosetti che magari ambivano al suo incarico. Da marzo infatti arriva quella che sarà la più grande retrospettiva del maestro della video arte, Bill Viola. E vedremo stavolta che obiezioni inventeranno.
In copertina: Ai Weiwei in Sichuan- Snake Bag (Borsa serpente), 2008, 360 zaini, cm 40 x 70 x 1700. Courtesy of Ai Weiwei Studio